Aneddoti militari

Negli ultimi anni mio padre mi ha raccontato vari aneddoti di vita militare. Sono episodi spesso demenziali, ma permettono di avere elementi concreti per capire la vita nell’esercito. Alcuni li ricordo male, tant’è che avevo già pensato un paio di mesi fa di farmeli raccontare di nuovo questa estate e scriverli, approfittando del tempo da passare assieme da quando ha lasciato l’incarico di segretario dell’ANA (Associazione Nazionale Alpini) di Bergamo ad aprile, dopo 14 anni di lavoro sia a casa (in particolare gli allucinanti verbali da sbobinare e trascrivere, mattina e sera) che in sede (tre pomeriggi alla settimana, minimo).
Approfittando del cambio del presidente, si è messo in pensione “per davvero”, a 76 anni, ed era pure ora. Ha pile di libri da leggere non appena “arrivato alla pensione” (inclusi parecchi in digitale, come Un Cantico per Leibowitz, con cui avevo previsto che iniziasse a usare il Kobo Simple Touch) e di viaggetti in giro per l’Italia da fare con mia madre. Per iniziare, dopo il giro a Ferrare a inizio maggio per vedere Conigliando 2012, proprio giovedì della scorsa settimana è partito con mia madre per andare a Vibo Valentia qualche giorno, a trovare l’altro mio fratello, passando per Roma a caricare la zia. Poco distante da Vibo c’è Tropea, che ha delle spiagge bellissime, e a mia madre piace il mare.

12° Corso dell’Accademia Militare di Modena (137° per la numerazione tradizionale),
2° Plotone (varie armi) della 8^ Compagnia, quello in cui si trovava mio padre.

Già da maggio abbiamo progettato di passare l’estate il più possibile assieme.
Poche settimane fa siamo stati (senza mia madre, a cui non frega nulla) a vedere la collezione d’armi Marzoli al Castello di Brescia. Molto bella. I cartellini con i nomi erano buoni, ma la mancanza di qualsiasi spiegazione rendeva la comprensione a un neofita impossibile. Ho fatto da guida a mio padre, spiegando tutto il necessario, per esempio il motivo della forma delle diverse guardie delle spade da lato che vedevamo e delle diverse lame, fino alla riduzione alla semplice piastra ovale dello spadino settecentesco, sintetizzando i motivi per cui il passaggio graduale dalla scherma in stile Marozzo a quella tipo Capoferro comporta l’evoluzione di elementi della guardia diversi. E tante altre cose, su armi da fuoco e armature.
Pochi giorni dopo abbiamo programmato la visita all’Armeria Reale di Torino e al Museo dell’Artiglieria, per metà luglio. Il Museo dell’Artiglieria mio padre lo ha visitato circa 30 anni fa, quando era colonnello a Torino, ed era zeppo di roba alla rinfusa, come un magazzino. Quando abbiamo scoperto che ora è chiuso per lavori in fondo non gli è dispiaciuto: vederlo prima o poi ben riordinato era una delle cose che sperava di fare un giorno. Certo che aspettare 30 anni per sistemarlo proprio quando volevamo andarci noi…
L’Armeria Reale comunque è molto bella, la vedrò volentieri. Per il Museo dell’Artiglieria magari il prossimo anno o quello ancora dopo. Si vedrà.
Passiamo agli aneddoti e alle curiosità.
Giusto poche cose perché, come ho detto, molti avvenimenti avrei bisogno di farmeli raccontare meglio per poterli riferire e tantissimi, magari molto interessanti, non li conosco neppure.
A un certo punto fu necessario informatizzare i magazzini e il Ministero affidò il progetto a IBM, assieme ai soldi necessari. IBM non fece un cazzo, a lungo. Visto che gli alpini avevano necessità di avere qualcosa presto e, soprattutto, erano disponibili varie reclute con conoscenza di informatica adeguate, si fecero un programma proprio. Peccato che non potessero usarlo, non essendo approvato dal Ministero, ma ovviamente se ne fregarono e alla fine, quando l’IBM rivelò che ne sbatteva la palle di lavorare in cambio dei soldi già ricevuti, il ministero lo accettò in via provvisoria e diede il via libera.

Escursione sul monte Pisanino, luglio 1968, durante le esercitazioni in Garfagnana.
Mio padre è quello a sinistra, ancora senza barba e senza baffi. A destra l’amico Vannucchi.

Poteva andare peggio. Una volta gli alpini di mio padre ebbero bisogno di cambiare gli zaini e ottenere un design moderno, con lo schienale di supporto rigido per i carichi elevati. Avendo una gran fretta, studiarono il modello in proprio, fecero accordi con aziende di fiducia e ottenere lo zaino ideale a prezzo contenuto. Peccato che non fosse approvato dai pezzi grossi. Alla fine con i soliti gloriosi appalti pubblici, trasparenti e democratici italiani, ovvero al ribasso e senza garanzie di qualità, un’azienda ottenne di poter fornire i nuovi zaini. Fine del progetto autonomo degli alpini. I nuovi zaini costavano molto di più e dopo poche settimane di uso intenso cadevano a pezzi, lasciando cinghie e schienale addosso mentre il resto finiva a terra. La cosa non li fece propriamente felici.
Torniamo al software del magazzino. Ogni tanto servivano ruote nuove per un certo tipo di veicolo, mi pare uno del genio, e veniva fatto l’ordine. E le ruote non arrivavano. Ordinavano di nuovo. Non arrivavano, di nuovo. Visto che la cosa suonava ridicola e che il maggiore responsabile aveva una brutta fama, mio padre (all’epoca era tenente colonnello) andò direttamente al magazzino. Verificò con il sottufficiale responsabile degli arrivi e uscite che effettivamente le ruote risultavano ordinate, ricevute e prelevate dagli interessati. Un bug del software che indicava come consegnato un prodotto che era solo arrivato? Si fece accompagnare in un giro nel magazzino, enorme, e dopo pochi metri, a destra, incappò in una piramide di ruote che arrivava al soffitto. Il sottufficiale sbiancò per la figura da coglione fatta. Nemmeno il maggiore, che mi pare fu coinvolto o prima o dopo in un altro casino a base di ordini di legname, fu troppo felice di far sapere al proprio comandante di non avere nemmeno idea di cosa accadesse nel proprio magazzino. Diciamo che la sua carriera finì lì.
Non sempre l’informatizzazione fornisce buoni risultati, soprattutto quando idiozia, pigrizia e bug si mischiano assieme.
Qualche volta dai problemi della logistica nascevano piccoli vantaggi. Ci fu un anno di forte siccità e in tutta Europa il fieno era molto costoso e soprattutto difficile da reperire, tanto che non venne garantito alcun approvvigionamento agli alpini: se volevano che i muli non morissero (e guai loro ad ammazzare animali proprietà dell’esercito!) dovevano trovarselo da solo il fieno e pagare il prezzo di mercato previsto, ovvero 3000 lire ogni TOT (mio padre non ricordava più quanto, ma si ricordava il rapporto di cifre che vedrete anche se magari non era proprio 3000 e 1000). Mio padre ci pensò un attimo e si ricordò che di fieno ne aveva visto a sufficienza per tutto l’anno, proprio a due passi, presso le aree coltivate e i pascoli montani a cui nessun veicolo poteva accedere. E tutto quel fieno era lì, a far nulla. Con 1000 lire poteva prelevarlo coi muli e liberare i contadini (felicissimi) della fastidiosa eccedenza. Peccato che senza fattura non poteva comprarlo! Grazie a un paio di alpini con famigliari dotati di aziende agricole, ottenne le ricevute che dichiaravano 3000 lire di pagamento al TOT, come voleva il Ministero. Con le 2000 di eccedenza si fece cassa per comprare cibo (decente) e materiali: nel clima di povertà costante delle forze armate faceva sempre comodo avere qualche risparmio extra.
Arrangiarsi era una costante. Il genio usava un vecchio modello di veicolo da lavoro, FIAT (o forse era Iveco? A me ha detto FIAT, ma magari confondeva le marche), perfettamente funzionante. Avevano giusto bisogno di qualche riparazione ogni tanto. Sfortunatamente il modello era così vecchio, così vecchio, che non venivano più nemmeno prodotti i pezzi di ricambio. Mio padre, all’epoca non ricordo se ancora tenente colonnello o già colonnello, sfruttò l’idea di un suo sottoposto con parecchi agganci nel mondo degli sfasciacarrozze (che i Capoccia non potevano contattare per reperire a livello centrale i pezzi… sempre per motivi burocratici/legali). Contattando mezza Italia ottenne scorte pressoché infinite di pezzi di ricambio a pochi soldi, dai moltissimi veicoli civili dello stesso tipo che venivano rottamati.

Mio padre tenente colonnello del gruppo artiglieria da montagna “Bergamo”, nel 1977-1978.
Ha impiegato un po’ a scegliere la barba, ma ancora non ha i baffi.
È rimasto lento nel decidere le cose anche dopo… ^_^””

L’arrangiarsi funzionava a ogni livello. Ai valtellinesi piacevano le risse, le coltellate e il contrabbando. Le minacce di coltellate alla schiena, quando mio padre era tenente o capitano, erano frequenti. Gli alpini di una volta erano parecchio ruspanti ed era considerato normale che non rispettassero i gradi (ma solo le persone che dimostravano di valere qualcosa) e che comunque minacciassero anche gli ufficiali che apprezzavano, ogni tanto. Tra questi alpini ce ne era uno che otteneva i soldi, quando ne aveva bisogno, con questo sistema: chiedeva con inusitata gentilezza un permesso di tre giorni a mio padre per poter guadagnare qualche soldo, se era appena appena possibile mio padre glielo concedeva, e quel tizio in una marcia forzata di tre giorni andava a tornava dalla svizzera, attraverso passi privi di controllo, carico come un mulo di sigarette di contrabbando da vendere.
A proposito di coltellate. Quello che minacciava più spesso mio padre, dicendogli che se lo avesse ritrovato da civile lo avrebbe accoltellato, poi lo ritrovò anni dopo. Gli corse incontro urlando “tenente!” e lo abbracciò, piangendo di gioia. Mio padre per un attimo se la fece addosso. Immaginate un energumeno con la faccia da bandito, violento, un vero montanaro di una volta, che vi ha promesso di ammazzarvi e vi corre incontro urlando. “Ma come, non mi volevi accoltellare?” (in italiano) “Macché tenente, che se le davo una coltellata all’epoca finivo in fortezza, qui se lo faccio mi buttano in galera!” (tradotto dal mix di dialetto e italiano usato).
Piccola nota: per gli alpini il loro tenente rimane sempre il loro tenente, anche se nel frattempo è diventato un maggiore o un generale.
Rincontrare i “reduci” (per modo di dire) della leva sotto papà era sempre bello. E lo è sempre stato, anche in tempi recenti (“Tenente! Si ricorda di me?”), forse una delle cose che più rendeva felice mio padre, ritrovare soldati di cui magari aveva solo un vago ricordo, ma che si ricordavano perfettamente di lui e provavano nostalgia del loro tenente “severo, ma giusto” (anche abbastanza carogna, volendo, ma comunque giusto).
Diverso è parlare dei veri reduci, quelli della Seconda Guerra Mondiale. Alcuni erano persone incredibili, molti li conobbe negli anni dell’Accademia e subito dopo, alla Scuola d’Applicazione a Torino. Un nanetto mingherlino che con uno sguardo terrorizzava un omone. Feriti di guerra dalla mente ferrea, insegnanti straordinari. Perfino un pugile rintronato, che con i danni a lungo termine subiti coi K.O. ficcò in mio padre un orrore verso il pugilato che è durato per sempre.
Altri reduci della Seconda Guerra Mondiale erano individui traumatizzati. Molti erano alcolizzati, se andava bene. C’era anche di peggio. Uno dei CAR (Centro di Addestramento Reclute, il posto dove avvenivano le prime 4 settimane di addestramento di base) venne chiuso a causa di un ufficiale, un veterano d’Africa e della guerra coloniale, che trattava i giovanotti italiani come trattava i somali anni prima: insulti, botte, maltrattamenti. Non riusciva a capire che non era più in Africa, che il mondo era cambiato e che quei metodi non funzionavano.
Quando mio padre era capitano, il suo superiore fu per un po’ di tempo (non ricordo dove e quando) un maggiore perennemente ubriaco. Iniziava facendo colazione al bar con il caffè corretto, che nel suo caso era solo whiskey con una goccia di caffè. Per le dieci di mattina la prima bottiglia era finita e lui non riusciva più nemmeno a leggiucchiare e firmare i documenti. Bisogna fare tutto prima di quell’ora e poi lasciarlo lì, a soffrire per il proprio destino. Beveva a causa della guerra, ma non solo: beveva perché non lo promuovevano e si sentiva perduto, tradito. A sua volta non lo promuovevano a tenente colonnello perché beveva. E questo lo portava a bere di più. Non ricordo se alla fine è morto per le condizioni del suo fegato, ma fu un altro dei tanti reduci che non sopravvisse per davvero al conflitto.
Rispetto a quel poveretto distrutto, questi altri due casi sono eccentricità divertenti: a Silandro (ma forse ricordo sbagliata la località), questa volta quando mio padre era un giovane ufficiale (inizio anni ’60), c’era un reduce con un occhio solo che dormiva tutto il giorno, poi la notte saltava su e pretendeva che tutti festeggiassero con lui. Andava a svegliare mio padre e tanti altri per portarli a bere, a divertirsi, poi crollava e durante la giornata di lavoro non c’era. Il problema era pesante, visto che gli altri volevano dormire. Non ricordo come, ma riuscirono a liberarsene (il che non mi pare troppo difficile, visto che non lavorava, ma visto in che modo sballato funzionava la burocrazia militare…).
Un altro reduce impazzito girava con la sciabola, affilata apposta, e la mulinava mentre berciava insulti e follie miste. Anche lui finì male. Di quest’ultimo non ricordo proprio nessun altro dettaglio, o forse non me li ha nemmeno detti. Boh. Come spiegato all’inizio, sono tutti episodi che da tempo volevo farmi raccontare di nuovo.

Mio padre nel 1990, generale di brigata, penultimo comandante della Orobica prima del suo scioglimento, poi andato in pensione come generale di divisione nel 1994.

Torniamo ai “reduci” più simpatici, quelli della leva, i normali alpini che hanno svolto il servizio sotto mio padre. Martedì ne ho conosciuto uno in vena di aneddoti. Un soggetto simpaticissimo, classe 1939. Era con mio padre a Silandro quando si intensificò il terrorismo altoatesino nel 1961. L’anno in cui venne istituito il coprifuoco dalle 21 alle 5.
Delle operazioni antiterrorismo mio padre ricordava uno dei pochi morti tra i soldati italiani, un suo alpino, che perse una gamba su una mina e gli morì davanti. Gliene morirono tanti davanti, nei crepacci e per incidenti con le armi, ma quello fu una cosa diversa. Quando si apriva una porta di una malga, ci si buttava tutti a terra che non si sapeva mai se ci fosse una trappola esplosiva. Si ricordava bene di un prete che proteggeva i terroristi. Mio padre fece circondare la chiesa e si piazzò all’ingresso, poi aspettò la fine della messa, per rispetto al rito religioso. Finita la messa partì dritto verso il prete e lo arrestò davanti ai fedeli. Le vecchiette si fecero il segno della croce e invocarono il signore a proteggerle dal demonio italiano che osava violare il sacro suolo di una chiesa. Fu un momento di grande soddisfazione personale.
Dicevo, quell’alpino mi raccontò di un divertente episodio di ammutinamento. Essendo non solo alpino, ma pure artigliere, aveva diritto al supplemento di rancio per la grande fatica che lavorare con gli obici comportava. Sfortunatamente il rancio extra non arrivava mai. Si lamentarono, si lamentarono ancora, ma non arrivava. Come detto prima, gli alpini sanno arrangiarsi: forse un alpino può essere spedito a Peschiera ai ferri per due o tre mesi se si ammutina, ma se lo fanno sei batterie al completo?
In mezzo alla neve, gli ammutinati dell’artiglieria alpina resistettero a muso duro e mio padre ottenne subito ciò che spettava loro. Che poi, essendo gente onesta, era l’unica cosa che volevano. “Non mi interessa che grado hai, a me spetta questo e me lo dai o me ne sbatto degli ordini e di te”, riassumendo il senso di giustizia di una volta.
Lo stesso alpino si beccò più volte, senza battere ciglio, i 15 giorni di punizione, chiuso in caserma senza libera uscita. Così, a sorpresa, al risveglio. Il motivo? Come caporale era responsabile dei soldati sotto di lui che facevano la guardia di notte e nelle ore di guardia, spesso, capita che ci si faccia un pisolino. Sfortunatamente, questo mio padre me lo aveva raccontato un po’ di volte nel corso degli anni, le sentinelle avevano in dotazione i vecchi MAB 1938 (mitra della Beretta, prodotto tra 1938 e 1961), armi scadenti per l’uso “pacifico” a causa, come per molti altri mitra della Seconda Guerra Mondiale, dell’azione a otturatore aperto che può far partire una raffica con una botta sul calcio. Se ci aggiungete la sicura demenziale, praticamente simbolica nonostante le lavorazioni e correzioni successive, veniva fuori un’arma che cascando sul calcio dalle mani di una sentinella appisolata poteva far partire una bella raffica. Spesso c’era solo un gran spavento e un macello per il soldato e per il graduato sopra di lui. Qualche volta la raffica feriva la sentinella. Una manciata di volte la raffica uccise la sentinella.
E poi ci sarebbero tanti altri episodi a cui vorrei almeno accennare, come quando in una malga la contadina sgusciava uova sode e intanto si soffiava il naso nelle mani nude; o quando dovettero fuggire da una stalla in cui avevano trovato rifugio dal gelo, sommando il proprio calore e quello degli animali, perché il ghiaccio sciogliendosi si rivelò urina animale ed erano così forti i fumi di ammoniaca da costringere a tornare nella neve; o quando per uno scherzo venne inviato coi suoi alpini ad attraversare un percorso impossibile dicendogli che “è fattibile, ci sono stato, non si fidi delle mappe”, e lui coi suoi uomini ce la fece lasciando di merda tutti; o del fantasma nell’appartamento in via Urbana, a Roma; o storie a base di soldati arrapati e prostitute degni dei film con Alvaro Vitali; o dell’obice affondato in una piscina di letame camuffata con l’erba in un campo; o tanti altri che ora non mi vengono in mente.

Mio padre al quarto raduno alpino alla Corna Marcia, 2 giugno 2012.

Sabato 23 giugno, poco dopo mezzogiorno, mio padre è morto.
Era con mia madre e mia zia a Tropea, in Calabria, arrivati da neanche venti minuti in spiaggia da Vibo Valentia. Mia zia fece il bagno per pochi minuti e disse a mio padre che l’acqua non era male. Mio padre allora, invogliato dal fatto di stare benissimo e dal bel mare, entrò e fece qualche bracciata a pochi metri dalla riva, dove si toccava ancora. Mia zia e mia madre lo videro nuotare un pochino, poi fermarsi a parlare con una signora e un signore. Mia madre si sdraia, neanche due minuti e la signora accanto le urla “Mio dio, c’è un signore che sta male, mi sembra suo marito!”.
Lo stavano già trascinando fuori dall’acqua, con gli occhi ribaltati, privo di sensi. Fortunatamente, anche se non è servito a nulla, una signora lì accanto era un medico e ha tentato subito la rianimazione, diceva che c’era ancora una pulsazione debolissima. I soccorsi arrivarono in un lampo e lo portarono all’ospedale, ma era morto prima di arrivare.
Il medico disse: “scegliete: o è infarto o è trombosi o è aneurisma.”
Infarto non era stato, che poi il cuore stava benissimo, sotto controllo con esami continui ed era sotto cure che avevano cancellato il problema delle fibrillazioni del 2008-2009, riportando anche le valvole cardiache in condizioni ideali. Trombosi (che può capitare nonostante il Cumadin) oppure aneurisma.
Quando il cadavere è arrivato alle pompe funebri qui a Bergamo, ci hanno detto che il torace era scuro e un grosso vaso (l’aorta?) doveva essersi gonfiato e infine lacerato, facendogli perdere i sensi in pochi secondi e uccidendolo in pochi minuti, senza soffrire. Aneurisma.

Uno degli articoli apparsi su L’Eco di Bergamo. Riporta per semplicità infarto, dato che la causa reale è stata intuita dopo e non segnalata.
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Servizio di Bergamo TV per la morte, 25 giugno 2012.

Gli alpini di Bergamo ci sono stati molto vicini.
In particolare il caposezione di Boccaleone, Ezio Nespoli, e l’ex presidente Sarti, che ha tenuto un bellissimo discorso, rotto dalla lacrime, durante il funerale. Anche il medico di famiglia, una bravissima persona che ha sempre fatto per noi molto di più di quanto dovesse, e che seguiva da tempo le condizioni (eccellenti, tant’è che andava in montagna ogni settimana a fare scarpinate di ore) di mio padre, è riuscita a rimanere solo pochi minuti davanti alla bara nella camera ardente prima di mettersi a piangere e andarsene. E tanta altra gente l’ho vista piangere al funerale, dagli alpini di una certa età fino alle giovani ragazze. Ricordo proprio che alla fine del funerale, subito prima di caricare la bara nel carro funebre, una ragazza coi capelli castani mi è passata accanto e piangeva e ho pensato “Perché piange? Non era suo padre e non piango io anche se è il mio”.


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Servizio di Bergamo TV sulla camera ardente, 26 giugno 2012.

Ho pianto subito dopo la notizia, nell’ora e quaranta di viaggio in auto da Edolo verso casa, fissando il vuoto oltre il finestrino, e ho pianto per pochi secondi la mattina dopo, appena alzato, giusto il tempo di una singola lacrima. Quel pianto strano in cui non si fanno smorfie o versi, ma le lacrime escono lentamente e basta e sono solo un fastidio da asciugare. Lacrime che sono uscite solo dall’occhio destro e non ho idea del motivo.
Poi basta, nulla alla prima camera ardente di lunedì pomeriggio alla pompe funebri, nulla alla seconda camera ardente di martedì presso l’ANA di Bergamo, nulla al funerale di mercoledì (bello, con un lungo corteo, e la chiesa era piena e c’erano un centinaio di alpini con i gagliardetti e le insegne delle associazioni d’arma piazzati solo tra l’altare maggiore e i gradini) e nulla nemmeno ora mentre scrivo questo articolo.



Foto prese dalla galleria su L’Eco di Bergamo.

Mio fratello Adriano, con me a Edolo, ha ricevuto la telefonata da Vittorio, quello a Vibo, alle 13:31. Alle 13:33 mi ha chiesto di uscire dal ristorante per parlarmi. Non più tardi delle 13:34 ho saputo che mio padre era morto. Nel momento in cui pubblico questo articolo, è passata una settimana esatta.
Non andremo a vedere l’Armeria Reale.
Non andremo a vedere il Museo dell’Artiglieria.
Non mi racconterà di nuovo gli aneddoti che ricordo male.
Fortunatamente a quest’ultima cosa si può porre parzialmente rimedio: gli alpini di Bergamo vorrebbero poter pubblicare un libretto di aneddoti e memorie su mio padre e mi aiuteranno, tra il 2012 e il 2013, a rintracciare alpini che hanno qualcosa da raccontare e a raccogliere il materiale per fare quantomeno una versione digitale per il sito dell’ANA di Bergamo.
Mio padre sapeva che sarebbe morto all’improvviso.
Quando mio padre aveva 32-33 anni, suo padre morì così: era andato dal medico di fiducia perché aveva un fastidio allo stomaco e non capiva cosa fosse… il medico disse che non era niente e pochi istanti dopo il nonno morì di infarto. All’epoca il medico si sentì in colpa, pensando che se avesse capito i segni, che erano lì a cercarli bene, avrebbe potuto salvarlo senza problemi con una iniezione.
In questo caso nessuno può incolparsi di nulla: un grosso vaso che si lacera senza motivo apparente, senza nessuno dei segnali preliminari di un aneurisma in corso, in un individuo completamente sano, con la pressione fin troppo bassa (da sempre) e senza nemmeno un filo di colesterolo, coi trigliceridi e gli altri valori agli esami del sangue (periodici da anni, ogni mese mi pare) degni di un trentenne in forma. Mio padre comunque da anni mi preparava all’idea che sarebbe potuto morire di colpo, senza alcun ragionevole motivo. Forse questo ha aiutato a vivere meglio il tutto.
E anche sapere che, seppure ho perso 5 o 10 anni di vita con lui, so che a differenza di tanti altri e del mio nonno e della mia nonna materni, è morto senza una lunga agonia ed è morto senza perdere prima le proprie facoltà mentali. Ed è morto in uno dei giorni più felici della sua vita, dopo aver rivisto il primogenito e in un momento in cui si sentiva pieno di forze e giovane come non mai, appena reduce di una traversata in auto da Bergamo a Vibo in due giorni andata “molto meglio del previsto” in termini di fatica.
Quanti possono morire senza soffrire e pienamente felici?
Quindi, alla fine, è andata bene così.

Il Duca di Baionette

Dal 2006 mi occupo in modo costante di narrativa fantastica e tecniche di scrittura. Nel 2007 ho fondato Baionette Librarie e nel gennaio 2012 ho avviato AgenziaDuca.it per trovare bravi autori e aiutarli a migliorare con corsi di scrittura mirati. Dal 2014 sono ideatore e direttore editoriale della collana di narrativa fantastica Vaporteppa.

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  • L'articolo è bellissimo, gli rende davvero onore. In bocca al lupo per il libricino di aneddoti, e un saluto a tuo padre.

  • Le mie condoglianze, Duca, per quel che valgono in situazioni come queste.
    Bellissimo modo di ricordare e salutare.
    ( mio nonno era genrrale dell'esercito (artiglieria) anche lui mi ha raccontato aneddoti quasi incredibili)

  • Codoglianze, per quanto possano valere.

    Quindi, alla fine, è andata bene così.

    Verissimo, mio nonno è ancora vivo ma la demenza senile se lo è portato via già da parecchi anni. Un pezzo alla volta, anno dopo anno in un declino doloroso per tutti. E ogni visita non fa che rinnovare la tristezza al ricordo dell'uomo che dipingeva quadri, giocava a scacchi, trafficava con l'elettronica e i computer, costruiva modellini, ecc.

  • Condoglianze, Duca. Mi dispiace di non sapere trovare parole migliori per un momento come questo.
    L'articolo è veramente bellissimo.

  • Ti seguo ormai da quasi un anno, non avevo mai lasciato alcun commento finora. Ho letto con partecipazione quanto hai scritto. Ti porgo le mie più sincere condoglianze

  • Un post bellissimo, commovente nel finale per la sua semplicità e che acquista ancora maggior significato da tutto quello che precede. Un bellissimo ricordo. Condoglianze.

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Il Duca di Baionette

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