Per proseguire meglio in futuro il discorso sui vini introdurrò in questo articolo l’uso del punteggio, utile per chiarire meglio cosa si pensa di un dato vino senza limitarsi solo ai descrittori sensoriali come “abbastanza fresco” o “abbastanza fine”. Nei limiti delle mie poche capacità di aspirante sommelier (ho completato i primi due livelli del corso, mi manca il terzo dedicato solo all’abbinamento col cibo) voglio spiegare ai neofiti, come lo ero io fino a pochi mesi fa, e in gran parte lo sono ancora, i concetti di base sul giudizio a punti in termini comprensibili anche a chi non sappia praticamente nulla di vino. E sfatare qualche mito nato dall’ignoranza o dall’idiozia.
Se ho un problema con il bere?
Direi proprio di no, il vino mi piace molto.
Lo scopo della valutazione è di fornire una base chiara e quindi verificabile (e contestabile) partendo dal dato oggettivo analizzato (ovvero il vino), pur sfruttando mezzi inaffidabili come i sensi umani. Esattamente come nel caso del giudizio in narrativa fondato su criteri tecnici condivisi. In particolare olfatto e gusto, connessi ai ricordi (conoscere moltissimi sapori porta a riconoscerli nel vino), portano a una discreta variabilità di risultati da individuo a individuo… molto più che in narrativa è in bocca che i “gusti sono gusti” diventa un concetto importante. Nonostante tutto le analisi fondate su criteri oggettivi garantiscono non solo un terreno comune in generale valido, ma permettono a chi conosce “i propri gusti” di sapere cosa cercare e cosa evitare!
Esattamente come avviene in narrativa è possibile valutare in modo oggettivo un vino, anche di un tipo che non piace, applicando seriamente i precetti di analisi allo scopo di ridurre al minimo il bias legato al proprio gusto, per fornire così informazioni utili a chi cerca quel tipo di vino. È meglio operare nell’ambito che si preferisce, anche perché così è più facile accumulare con piacere esperienze e valutare nel contesto più ampio della sua “tipicità” un dato vino. A giudicare al meglio un Pinot Nero è meglio che venga chi ne ha bevuti 500 provenienti da diverse regioni del mondo e da annate diverse dello stesso produttore, non quello che ne ha bevuti solo 2 e che quindi ha timori e non sa bene se può dare l’eccellenza al gusto o al colore o al profumo. Magari darà 6 punti in meno perché non saprà premiare la qualità eccelsa al naso e in bocca, ma tra 80 e 86 non è che ci sia una differenza drammatica!
L’evoluzione del bevitore consapevole:
sapere che bevo una bottiglia al giorno non mi rende meno alcolizzato.
Nella narrativa fantastica, al contrario, chi non conosce nulla tende a vedere straordinaria originalità ovunque invece di mordere il freno per timore che gli elementi lodati siano, per quanto ben fatti, semplici cliché presenti in migliaia di altri romanzi precedenti. Il tipo di errore è lo stesso, quello del trovarsi di fronte a un ambito che non si conosce e pensare di “valutare nel contesto” lo stesso, ma la modalità con cui si sbaglia è diversa (in eccesso di entusiasmo invece che in difetto).
Il problema VERO non è un 80 al posto di un 86, ma se si fa trionfare il proprio solo gusto violando i precetti tecnici obbligatori e la mentalità con cui dovrebbe operare sempre un degustatore. Sbaglia chi dice “A me i sentori tipici al naso di terreno, di fungo, di un Pinot Nero fanno SCHIFO! Mi rivoltano lo stomaco! Quindi questo Pinot Nero fa schifo!” e penalizza pesantemente l’olfatto e la persistenza gusto-olfattiva dandogli un 66. Questo non va bene. Sarebbe come valutare al livello di immondizia un romanzo di fantascienza con le astronavi, in una recensione indirizzata agli amanti della fantascienza con le astronavi, perché ci sono le astronavi!
In narrativa accade spesso, specialmente in Italia, ma in ambiti in cui la cultura dell’analisi e dell’oggettività sono più radicate, come il mondo del vino (per quanto anche lui pieno di problemi e di critici farlocchi o snob), è dato come banalmente ovvio che un simile approccio del “solo gusto senza oggettività” sia offensivo per l’intelletto umano e che chi lo sostiene sia, usando un termine un po’ tecnico del corso per sommelier, un coglione (“Allora non sei un degustatore, sei un coglione!”, disse un relatore… e poi saremmo noi criticoni del fantasy a essere ingiustamente offensivi con chi parla solo di gusti, vero?).
Il Pinot Nero fermo è uno di quei vini rossi particolari che o si odia o si ama perché il frutto è secondario rispetto ai sentori di terra: io lo amo come lo amava Cavour. Se proprio si capisce di non tollerare, di non riuscire a superare il disgusto verso un dato sapore e di non riuscire a essere obbiettivi, si rinuncia a valutare. Può capitare. Conosco un grande appassionato di spumanti, li ama tutti, berrebbe qualsiasi spumante di ogni angolo del mondo (anche quelli che poi si rivelano rivoltanti) con gioia, solo per il gusto della scoperta, eppure il Brachetto d’Acqui lo disgusta. Non se la sente di valutarlo: d’altronde se una cosa fa così schifo da non riuscire a dire quanto l’aroma e il sapore siano eleganti, valutare la qualità olfattiva e gusto-olfattiva al meglio diviene impossibile.
Tornatene a casa, Cthulhu. Sei ubriaco.
Meccanismi compensativi sul giudizio vengono applicati, a quanto dicevano al corso, in quei casi in cui l’abitudine a certi vini porta a svalutare ingiustamente gli altri. Per esempio i veneti, abituati all’Amarone, tendono a sentire come poco saporiti gli altri vini e i piemontesi, abituati a discutere di annate di Barolo, trovano poveri di struttura gran parte degli altri rossi. Basta guardare come schedano i vini per capire la regione del degustatore: pur sempre nei limiti dell’accettabile, ma penalizzano il più possibile quei valori che sono abituati a sentire più marcati. Una piccola compensazione corregge l’errore legato ad abitudini alimentari che non rappresentano l’Italia enologica nel suo complesso.
Questo, come altri elementi, ha un corrispettivo esatto nell’analisi della narrativa, ma preferisco lasciare da parte questo discorso sui legami tra analisi dei vini e analisi dei romanzi per un futuro articolo dedicato. E un giorno spero di completare un progetto che mi frulla da un po’, quello della degustazione narrativa con schede ispirate a quelle della Associazione Italiana Sommelier.
Il primo tipo di degustazione che viene insegnato è quello analitico-descrittivo. È divisa in tre fasi, visiva, olfattiva e gusto-olfattiva, a cui seguono le considerazioni finali. Lo strumento tipico è il calice da degustazione ISO, che ha sostituito lo storico “tastevin” (quella ciotolina al collo dei sommelier), ed è un calice “compromesso” tra i molti calici specialistici adatti per i diversi vini, ottimizzato per degustare. Certi dicono che spesso è buono quanto i calici speciali, ma dalla mia esperienza mi sento di dissentire in almeno un caso: l’analisi visiva del perlage di un spumante vince nettamente il calice ufficiale Franciacorta, se ben rodato da alcuni utilizzi, o altri calici simili (come il calice da Prosecco).
Viene eseguita alla corretta temperatura di servizio del vino e nel caso non sia corretta va indicato nella scheda. In teoria è possibile valutare tutti i vini a 20 gradi, ma complica inutilmente il lavoro perché non restituisce le stesse sensazione che avrà chi lo berrà alla giusta temperatura. In teoria uno potrebbe bere anche il vino dopo averlo scaldato a 70 gradi in un pentolino, ma non è un buon motivo per degustare il vino come se fosse il tè, quindi non c’è neanche questo gran motivo di valutare a 20 gradi un vino bianco da bere fresco a 8-10 gradi.
E ovviamente il calice si tiene sempre per la base o al massimo per lo stelo, per non scaldare il vino e per non mischiare ai suoi profumi le eventuali puzze della mano (Ti sei lavato le mani e sai di sapone? Ti sei grattato le palle e sa di formaggio rancido?).
Si versa nel calice una quantità modesta di vino, bastano a occhio 7 cl. Andranno esaminati il colore, la luminosità e la consistenza del vino (alternativamente alla consistenza c’è il perlage, ovvero le bollicine, se è uno spumante). Si inizia con la limpidezza, guardando il vino controluce (o chinato indietro verso la propria mano): se un rosso non ha particelle in sospensione e non appare in alcun modo torbido, se si vede attraverso e la luce lo illumina, è “limpido”; i bianchi di norma sono “cristallini” e, nel caso degli spumanti, se mettendoli controluce le bollicine la riflettono come un diamante saranno “brillanti”.
Qualche particella in sospensione può essere accettabile, ma è meglio segnalarlo nel caso di una degustazione e nel caso farselo cambiare. Potrebbe indicare un piccolo deposito smosso che non creerà alcun problema, oppure la tipicità di un vino imbottigliato coi propri lieviti oppure una bottiglia che si sta rovinando (e questo comprometterebbe il resto dell’esperienza). Se il vino è così “velato” da sembrare un birra Weiss, torbido, la situazione è sempre inaccettabile e il vino va rifiutato: ben che vada avrà puzze importanti e un sapore di fogna, come avviene quando parte una bella fermentazione malolattica fuori controllo in bottiglia e il vino si popola di una comitiva di petomani.
Tenendo il calice di vino chinato su una superficie bianca si esamina il colore. I colori accettati nella scheda AIS non sono tutti, per esempio i vini rossi di 30-40 anni con il colore ambrato dell’urina marsalata non sono descrivibili “ufficialmente” (l’ambrato è un tono dei vini gialli, non dei rossi) e c’è la brutta abitudine di far cadere sotto “rosa tenue” troppe sfumature del rosa, dal mio amato “rosa pastello chioma di Gamberetta” fino al più rossiccio “sangue di piccione”. La trovo una mancanza di precisione sui rosati inaccettabile: il principe dei rosa, il vero rosa pastello, non può essere classificato con la dovuta precisione e si passa rapidamente verso le tonalità rossicce del “cerasuolo” e del “chiaretto”.
Direi che è un bellissimo rosso rubino (tipo ciliegia matura), molto luminoso, con forse un accenno di riflessi violacei sull’unghia. Suggerisce buona materia estrattiva e un vino fruttato da bere subito, senza farlo maturare di più. L’accenno di archetti regolari e stretti a sinistra (andrebbero valutati a bicchiere verticale) suggerisce un buon contenuto in alcool e ben strutturato: un vino che potrebbe essere vellutato in bocca e ben strutturato.
Aggiungo solo poche note sui colori. I vini bianchi di norma hanno colore “giallo paglierino”: se sono “dorati” o sono bianchi importanti capaci di evolvere e che sono maturati bene, oppure hanno fatto barrique (maturazione in botte piccola), oppure sono stati fatti con uve stramature o perfino appassite… oppure si sono ossidati e al naso o in bocca si sentirà il degrado. Il “giallo ambrato” indica di norma vini da dessert a base di uve appassite (l’altra opzione è vini guasti, ossidati). Il “giallo verdolino” (o anche paglierino con riflessi verdolini) indica vini giovani, freschi, beverini (oppure uve raccolte troppo presto, cariche di acidità e non adeguatamente mature). I rossi di solito sono “rosso rubino”, con i riflessi violacei e il “rosso porpora” che indicano vini giovani e il “rosso granato” che indica vini con sufficiente struttura e tannini da permetterne l’evoluzione (un bel Barbaresco arriva sul mercato, ancora troppo giovincello per il suo tipo, che è già granato). All’apice della maturazione un vino rosso può essere “rosso aranciato”, poi arriverà l’opacità e l’imbrunimento della morte.
Il colore indica qualcosa del vino che andrà poi confermato al naso e in bocca. Verifichiamo i riflessi sull’unghia (la parte più sottile, sul bordo del fluido a bicchiere inclinato): un rosso rubino la cui unghia risulti granata può indicare un inizio di maturazione ulteriore; un colore luminoso sull’unghia, vivo, indica un vino sano, bello, in grande salute; l’opacità indica un vino che si va spegnendo, che è all’apice della maturazione e sta andando verso il declino o che ha già iniziato a rovinarsi (se è un vino fatto l’anno scorso e invece che rubino luminoso è granato spento, significa che si è ossidato); l’unghia scarica, trasparente, può indicare povertà di materia estrattiva che può essere mancanza di glicerina (poca morbidezza, verificare bene la consistenza) o mancanza di sali minerali (sapore poco salato, spento) e debolezza di struttura (poca materia estrattiva e pochi tannini in un rosso e al più hai un fluido acquoso e beverino). Talvolta un vino rosso può essere così denso di colore e materia estrattiva da risultare nero e solo l’attento esame dell’unghia permetterà di capire se è relativamente giovane (rubino) o se ha fatto una buona maturazione in barrique (granato). Sempre semplificando al massimo tutto, eh!
I colori del vino secondo AIS.
I vini nei calici seguono in orizzontale l’ordine verticale della prima immagine. Il rosso rubino è così stracarico da sembrare nero e il granato senza l’unghia ben visibile sembra uguale.
Si finisce valutando la consistenza oppure il perlage. Per la consistenza si fa girare il vino nel bicchiere e si guarda quando si ferma: se si ferma subito è “consistente” (se è denso come miele o perfino filamentoso allora è “viscoso” e questo è sempre inaccettabile), se continua a fare onde come acqua minerale è “poco consistente” o perfino l’inaccettabile “fluido”. Se si è in dubbio riguardo la viscosità oppure se sia “consistente” invece di “abbastanza consistente”, si esaminano gli archetti: lacrime (gocce) che scendono lente e ravvicinate, formando magari il meraviglioso profilo di un acquedotto romano che rimarrà anche per ore nel bicchiere, indicano un vino sicuramente “consistente”. Archetti più distanziati, irregolari o rapidi indicano un vino “abbastanza consistente”. Se non si formano archetti di rilievo, se il bagnato si ritira dal vetro come acqua, allora il dubbio che sia “poco consistente” ha trovato una risposta positiva.
Nel caso del perlage si valuta il numero di bolle (quante catene nascono e quanto sono dense di bollicine?), la loro persistenza (durano solo nel primo minuto o un quarto d’ora dopo sono quante prima?) e la loro finezza (sono grosse come quelle dell’acqua frizzante, sono fini come punture di spillo o sono una via di mezzo?). Anche qui serve un po’ di esperienza per premiare l’eventuale bellezza della spuma iniziale o la presenza di catene a zig-zag (che salgono danzando, sculettando) e soprattutto serve un livello adeguato di spumante al posto giusto, non i 7 cl nel calice ISO: meglio un calice Franciacorta riempito a metà o fino al limite tecnico dei tre quarti.
Bisogna imparare a superare un blocco mentale che hanno molti di fronte al vino, ovvero pur sentendo chiaramente aromi di frutti, fiori o spezie note, il cervello si rifiuta di fare l’abbinamento perché NON ritiene di doverle sentire. Eppure le molecole aromatiche sono quelle, il profumo c’è. I profumi tramite l’analisi delle molecole aromatiche vengono analizzati anche in laboratorio, così è stato possibile scoprire che la combinazione di leggere variazioni nel numero di certe molecole (legate a movimento e aumento di temperatura) può creare combinazioni compatibili con più ricordi di profumi diversi.
Per esempio uno spumante rosé può avere molecole che ricordano la fragolina di bosco e un leggero agrumato un pochino più acido, ma alcuni degustatori potrebbero sentire invece una sintesi dei due e dire lampone. Un Gewürztraminer può ricordare un incrocio tra una pesca gialla e una banana, se non si conosce il profumo del litchi, ma se lo si conosce si può evocare quello nella memoria e dire litchi.
Le molecole odorose legate alle tostature possono scatenare profumi di tabacco, di legno, di cacao o di caffè. L’esperienza e la sensibilità permettono di evocarli al meglio, distinguendo sfumature di combinazioni possibili (tabacco dolce e una punta di cacao in sfondo?). Il sentore di terreno di un Pinot Nero, in combinazione con altri elementi, può evocare l’idea più marcata di funghi oppure puntare deciso verso il terreno bagnato (e a qualcuno possono venire in mente anche humus e radici, come tocco extra per descrivere la sensazione marcatamente terrosa provata).
Una spezia dolce può collocarsi, talvolta, a metà esatta tra la vaniglia e la cannella, lasciando al degustatore il compito di decidere cosa meglio descriva l’aroma nel suo complesso (nessuna delle due è sbagliata).
I sommelier giapponesi tendono a sentire profumi di alimenti o fiori poco diffusi da noi che condividono le stesse molecole aromatiche di alimenti e fiori più diffusi.
Sento dei profumi che, naturalmente, per un italiano sono insoliti […] Mettendo al naso un Pedro Ximenez sento il Gohandesuyo, il profumo di un’alga condita che si usa nella cucina giapponese, oppure in alcuni bianchi spesso sento il profumo dei fiori del Kinmokusei, una pianta che da noi è molto caratteristica.
(Kiyomi Yoshida, sommelier presso Eat’s di Milano)
Tra due parole in bilico con cui descrivere un profumo, senza che nessuna sia perfetta da sola, può nascondersi quel termine migliore proveniente da un cibo straniero che noi non conosciamo. Pensate a quando nel Max Rosé di Berlucchi, per descrivere i sentori di fragoline di bosco, di vaniglia e di fragranza dei lieviti, su un base leggermente dolce, ho sintetizzato (come anche altri) dicendo “crostata di fragole”. Una civiltà in cui il concetto di crostata non esiste, non può usarlo. Quanti conoscono il profumo dei fagioli di soia bolliti, in scatola? Molti probabilmente no. Eppure quella nota amarognola al naso e in bocca era chiara per me nel Prestige Rosée di Masseria Frattasi.
Cibi, fiori, spezie e sostanze profumate al mondo sono tantissime, mentre le molecole per descriverli e le loro combinazioni sono molte meno. È quindi normale che culture diverse, di fronte alle stesse combinazioni, preferiscano risposte che spiegano meglio quei profumi al loro naso… d’altronde lo scopo è proprio di descrivere in modo comprensibile un profumo usando termini che, a differenza dei nomi chimici delle molecole, anche le persone comuni possano capire.
Se gli alieni del pianeta Kthomm sento l’aroma delle ghiandole di P’tomm nel periodo del calore dentro un Nebbiolo, perché quel profumo è praticamente identico alle viole, dicano pure che lo sentano. Noi italiani diremo che sentiamo le viole, avendo poche esperienze degli P’tomm in calore.
Prima di tutto si annusa per valutare la botta odorosa, ovvero l’intensità: se si sentono bene dei profumi mettendo il naso vicino è “abbastanza intenso”; se la botta è superiore (si sentono bene stando seduti col calice sul tavolo a circa mezzo metro?) sono “intensi”; se appena versati nei calici si diffondono chiari profumi in tutta la stanza, ci scappa anche un “molto intenso”. L’intensità è la botta, la forza con cui si fanno sentire in modo chiaro, non la loro varietà o la loro eleganza. Anche se ovviamente non si premia l’intensità odorosa di un vino puzzolente di guasto! Si premia solo se sono almeno sufficientemente gradevoli per gli umani tipici (tendenzialmente i gusti sono molto simili tra le persone, basta vedere l’industria alimentare o la diffusione dei fiori, per cui il puzzo di letame o di uova marce è considerato cattivo… ma se a uno piace, può far comodo sapere che ci sono vini guasti in grado di soddisfarlo).
Ovviamente per ricevere un “intenso” o più serve anche che lo sprigionarsi dei profumi si senta a lungo: se il colpo iniziale è violento, ma poi l’assuefazione rapidissima e quasi non lo si sente più, allora è meglio dire che è “abbastanza intenso” facendo la media tra inizio e proseguimento (di norma non ci si scola il calice in un colpo per cui è meglio che un vino presenti aromi riconoscibili dal naso anche al passare dei minuti). L’intensità è come il numero di fiori di un mazzo: una rosa sola profuma meno di dieci rose o di venti rose uguali.
I profumi sono divisi in famiglie. Il conteggio di quante famiglie siano presenti è fondamentale, serve a capire l’ampiezza del bouquet di profumi, la sua complessità. Tornando al mazzo di fiori, invece delle sole rose possono essere 4-5 tipi di fiori diversi bene abbinati. Vini semplici e beverini, con solo due famiglie, sono di norma “poco complessi” (fruttato e floreale). Tipicamente un prosecchino è poco complesso. I vini tipici dovrebbero avere tre famiglie in modo chiaro, o due chiare e alcuni spunti di sfondo leggeri di altre, e sono “abbastanza complesse” (un Morellino di Scansano con fruttato di marasca, floreale di rosa e una bella nota speziata di pepe e tabacco).
Quattro o cinque famiglie chiare permettono di dire che è “complesso”, ma attenzione: per ottenere questa varietà, e per confermare il complimento, serve che il vino muovendosi nel bicchiere (lo si fa roteare in modo che formi una cavità, espandendosi lungo il vetro e ossigenandosi rapidamente), sprigioni non solo una nota extra di dolcezza, ma proprio degli aromi distintamente diversi. Quando le famiglie si sprecano, il termine è “ampio”.
Vanno conteggiati, come bonus quando si è in dubbio su quanto premiare l’ampiezza del bouquet, anche i sentori speciali extra: confetto, miele, burro e altri che citerò dopo.
Le famiglie vanno elencate in ordine di importanza olfattiva: tipicamente un bianco esprime prima fiori e poi frutta, un rosso il contrario, e se in un vino la nota minerale importante è nettamente sopra gli accenni vegetali, ci si aspetta che si parli prima del profumo minerale e dopo della notarella vegetale. In che ordine senti le famiglie? In quell’ordine vanno elencate.
— Fruttato: nei vini bianchi si sentono di solito profumi di frutta fresca a polpa gialla o bianca (pesca, mela, pera), frutta esotica (banana, ananas), agrumi (pompelmo, limone); nei vini rossi si sentono frutti più scuri, come ciliegia, la prugna, i frutti di bosco (mirtilli, more); nei rosati si trovano frutti più intermedi come la fragola o le fragoline di bosco o gli ancora più acidi lampone e ribes (ovviamente la fragola può stare anche nei rossi, come la Bonarda, ed è caratteristica del Brachetto).
— Floreale: i vini bianchi di solito hanno profumi di fiori bianchi freschi come gelsomino, biancospino, rosa bianca o fiori d’arancio (il moscato nell’Oltrepò Pavese tende a darlo) o perfino di fiori gialli nei vini evoluti di colore dorato; i rossi di solito profumano di rosa rossa, di violetta, di viola, sia fresche che appassite.
— Erbaceo, vegetale: più difficili da riconoscere, se non in modo vago (nella mia esperienza le foglie di pomodoro sono prive di odore, per cui cosa si indichi con questo nome l’ho scoperto dai Sauvignon Blanc), tranne in casi rari come il peperone verde marcato di certi Cabernet Sauvignon “all’americana”; fieno, bosso, mallo di noce o, nel Barolo, perfino il tartufo. Ci possono essere anche erbe aromatiche, come la salvia sclarea del Moscato oppure basilico, rosmarino e timo.
— Minerale: profumi amari e penetranti di pietra focaia, sasso, grafite, salmastro (metallico, tipo acciughe salate), inchiostro e perfino gli idrocarburi tipici dei Riesling della Valle del Reno (non è facile da riconoscere l’idrocarburo perché mancano le note sgradevoli ulteriori della vera benzina o del petrolio: per riconoscerlo bisogna pensare a una sensazione di litchi con dietro del salmastro).
— Speziato: spezie dolci come vaniglia e cannella (in Chardonnay o Gewürztraminer), la pungenza del pepe (data dal legno oppure tipica del vitigno, come nel Syrah), lo zafferano di grandi bianchi evoluti, l’anice, il chiodo di garofano e la noce moscata.
— Tostato: profumi da evoluzione ancora più di quelli speziati, in botte o in bottiglia, come cacao, affumicato, caffè, mandorla, nocciola, tabacco o il goudron (catrame) amato dai francesi.
— Animale: profumi all’apparenza non gradevoli che però in un vino di grande struttura danno quel tocco ulteriore come il cuoio, la lana bagnata, il pellame, le note selvatiche (foxy) tipiche della vite americana (vitis labrusca, ovvero vite selvatica, come l’uva Isabella da cui si faceva il vino Fragolino che non è più possibile commercializzare a causa dei livelli di tossicità sopra i limiti di legge) e che possono apparire anche come note evolutive dei vitigni internazionali.
— Etereo: profumi (ovviamente solo gli aspetti gradevoli) di grande evoluzione come di lacca, sapone, smalto o quell’odore ospedaliero di medicinali.
— Altri: profumi particolari ulteriori come il burro (vini bianchi in barrique, evoluti), legno (rossi che sono maturati in grandi botti), note balsamiche (di pino, mente o eucalipto), miele di acacia o millefiori (tipico dei passiti assieme all’uva passa) o miele di castagne (quella nota di miele amarognolo in certi rossi all’apice della maturazione dopo molti anni), pasticceria o crosta di pane (spesso riconducibile al Fragrante di un Metodo Classico), caramello o anche olive (che però io classificherei come “vegetale”), terreno con humus e radici.
Pelliccia, terreno bagnato e vegetazione in un bradipo, virato sul vomitevole
(la puzza li rende indistinguibili dalle piante marce, così i predatori non li notano)
A cui si aggiungo ulteriori termini come:
— Fragrante: di norma indica il profumo fragrante di crosta di pane, di dolci secchi, dovuto ai lieviti morti ed esplosi rilasciando le “interiora” dentro uno spumante Metodo Classico (come un Franciacorta o uno Champagne); può indicare anche, più raro, un profumo particolarmente vivace e giovane di fiori e frutta in un vino bianco (profumo fragrante di mela, pera e biancospino).
— Vinoso: il profumo del mosto che fermenta nella cantina, tipico di vini rossi giovani e talvolta l’unico profumo di vinelli generici prodotti in massa con uve dalle rese per ettaro mostruosamente elevate. In abbinamento e un vino rosso ne indica la gioventù, il carattere beverino, e una nota può essere comunque gradevole anche in contesti diversi su vini un pochino più elaborati (in un vino maturo, dopo anni di affinamento, non dovrebbe esserci mai).
— Aromatico: aggettivo da usare per primo nella descrizione, se si vuole, per chiarire che si è riconosciuto l’aroma tipico di un vitigno aromatico come Brachetto, Moscato, Malvasia o Gewürztraminer (Aromatico profumo di salvia sclarea di un Moscato Bianco).
— Franco: se un profumo è nitido, chiaro, preciso, insomma se proprio non lo puoi confondere con un altro sinonimo perché è “proprio questo ed è proprio tipico di questa tipologia di vino”, può ricevere, ma non è obbligatoria, l’indicazione di franco (profumo franco di viole appassite).
Descrivere i profumi non è obbligatorio. Contano quasi solo le famiglie, giusto per capire l’ampiezza, anche se è ovvio che al naso gran parte delle sensazioni con un po’ di esperienza si tramuteranno in nomi precisi, senza rimanere solo famiglie di profumi. Ho detto “quasi”: talvolta i profumi esatti servono per capire la coerenza e cosa aspettarsi da un vino. Per esempio il Moscato Bianco è un’uva aromatica (la maggior parte delle uve è neutra o al più semi-aromatica) che ha un profumo che si deve manifestare uguale nel vino, altrimenti c’è qualcosa di grave che non va. Quel profumo è un sentore muschiato di salvia sclarea (che è diversa dalla salvia officinalis da cucina). È così intenso e caratteristico che spesso chi non ha mai sniffato salvia sclarea, entrando in un vivaio che la vende, si troverà a pensare “cavolo che profumo di moscato spumante!”.
L’uva Nebbiolo produce nel vino un chiaro sentore di viole (fresche o appassite), molto caratteristico, che i bevitori di vino Nebbiolo, di Barbaresco o di Barolo si aspettano. Se quel profumo manca, qualcosa non quadra e si deve accendere un campanello: qualcosa di anomalo ha stroncato un profumo tipico. È tipico di quei vini e i clienti se lo aspettano (sarebbe come comprare un romanzo sui vampiri sperando che sia d’orrore e trovarsi in mano un rosa come Twilight). Magari non ci sono altri guasti nel vino, ma la mancanza di quel profumo incide sul giudizio dato che il “genere” lo prevede. Nulla vieta di usare l’uva Nebbiolo per fare un proprio vino di invenzione, ma se si vuole fare Barbaresco si sta dicendo ai clienti “avrete un vino così e cosà” e ingannarli non è giusto né bello.
Altri profumi, pur non essendo attesi o obbligatori, sono però indicativi: l’acidità più o meno grezza di un Prosecco si annuncia al naso con profumi che ricordano la mela (acidità più sgraziata) oppure la pera (acidità più controllata ed elegante); uno spumante può annunciare un bel nerbo acido che dia struttura e sostenga il vino con un bel profumo agrumato che ricorda il pompelmo (o piccoli frutti acidelli come il lampone o il ribes); la possente acidità di uno Champagne può arrivare ad annunciarsi con un marcato aroma di limone; il peperone verde indica la presenza di Cabernet Sauvignon con alte rese per ridurne la maturazione e vinificarlo ancora un attimino acerbo (sentore adorato dagli Statunitensi, peccato che così l’uva abbia tannini del vinacciolo più aggressivi, perda in eleganza e abbia meno materia estrattiva a dare sapore e struttura); se in un Pinot Nero più che il terroso domina un dolce, intenso profumo di confettura di frutta, nonostante sia in sé un profumo piacevole, nel suo contesto è una schifezza (e andrà penalizzato per la violazione della tipicità del Pinot Nero fermo).
I profumi ci avvisano: “occhio, il vino ti sta dicendo qualcosa su come sarà in bocca, stai attento e verifica la coerenza”.
C’è un trucco altrettanto semplice per l’analisi dei profumi anche nel caso dello Champagne e degli altri Metodo Classico?RISPOSTA:
Certo che sì. Sicuramente ce ne sono parecchi, ma io ne conosco solo due.
Se in uno Champagne si sentono note di grande freschezza fruttata (vino base giovane) assieme a note evolute di lieviti spinte verso la pasticceria invece che verso la crosta di pane (vino base maturo), sappiamo automaticamente che questa sensazione di “crostata di frutta” indica un vino Senza Annata (S.A.), ovvero una cuvée di vini base di annate diverse (alcuni produttori conservano anche 20-30 annate di cui conoscono ogni minuscolo dettaglio evolutivo) per equilibrare la base da spumantizzare al meglio e ottenere un risultato sempre uguale in ogni nuova produzione. Gli amanti dei Metodo Classico si aspettano che lo stile di un dato prodotto rimanga uguale nel tempo (se uno vuole variare crea un nuovo vino con un nome diverso e amplia l’offerta).
Profumi di tostature (tabacco, affumicato) nello spumante, magari abbinate a un colore dorato, indicano ovviamente che almeno parte del vino base ha fatto barrique, acquisendo gli aromi tipici del legno.
Si notano subito in prodotti come il Franciacorta Satèn di Vigne Note oppure il bergamasco Riserva di Fra Ambrogio de Il Calepino. Quest’ultimo lo consiglio caldamente, bellissima complessità olfattiva e perlage numerosissimo, e mi sento di confermare i 4 grappoli (fascia degli 85-89 punti) ricevuti su Bibenda 2013: eccellente rapporto qualità prezzo, uno spumante da 85-86 punti (mio voto) a 13 euro all’Iper con prezzo consigliato in enoteca di appena 18 euro. Non ha nulla da invidiare a certi Franciacorta blasonati da 30 euro.
Mi sono concentrato così tanto sull’esame olfattivo non perché sia il più importante (quello gusto-olfattivo è il principale), ma perché è quello più celebre, più giocoso. Elencare i profumi è un gioco, lo si fa per coinvolgere gli altri e aiutarli a superare il blocco mentale che etichetta tutto come “vino e basta”, per godersi meglio ciò che bevono.
Sfortunatamente è anche quello più abitato da millantatori. Da degustatori che inventano profumi che non sentono. Da gente che per fare il figo, l’espertone, elencano trenta o quaranta profumi. Non funziona così: studi sui profumi nei vini, e l’abitudine decennale dei veri esperti sommelier, ha dimostrato che di norma dopo 7-8 profumi nominati o si stanno usando i sinonimi o si stanno inventando cazzate. Come quel sommelier che molti anni fa, impressionando il giovane Guido Invernizzi, elencò decine di profumi in un vino, inclusa la “sella di cavallo sudato” (e Guido dopo l’iniziale stupore, la sensazione di non poter mai diventare così bravo, trovò proprio un cavallo sellato e sudato poche ore dopo, lo annusò e… non c’entrava niente con il vino).
Il mio consiglio è di usare un solo termine per famiglia, il più descrittivo. Due termini vanno bene se il profumo è borderline tra i due o per chiarire come quella famiglia sia dominante come diversità olfattiva nel bouquet. Quattro termini in una famiglia li trovo inutili.
Per esempio un Traminer Aromatico trentino, all’apice della maturità e a un passo dalla vecchiaia, come quello del 2009 di Maso Cantanghel, potrebbe essere così: profumo aromatico di frutta stramatura, quasi confettura (pesche e litchi); fiori gialli appassiti; spezia dolce (cannella); uva passa; una punta di profumi eterei.
Osservazione ulteriore: profumo intenso, con una nota alcolica appena appena fuori controllo, che ricorda una versione un po’ meno intensa e molto più elegante di un Passito di Pantelleria di fascia medio-bassa (es: Pellegrino 1880).
Non bisogna inventarsi sette frutti, cinque spezie dolci simili alla cannella, dodici nomi di fiori bianchi e gialli e tre profumi extra che ricordino l’uva passa (sentore tipico da Passito o da vino bianco che si è evoluto molto bene). Un naso più fine del mio dietro alla nota alcolica leggermente invasiva avrebbe potuto sentire non solo l’uva passa, ma anche una nota di miele, tipica dei Gewürztraminer fatti bene e ben evoluti. Io non l’ho colta a sufficienza, ma quasi sicuramente c’era, per cui se viene citata non mi stupisco. Idem se mi precisa che il fiore che sentivo era la rosa gialla, annuisco e ringrazio. Certo che se uno tira fuori un fantomatico goudron, i sentori piacevoli di catrame da grande rosso evoluto, sta sparando cazzate perché non c’era manco per scherzo.
E prima di descrivere nel dettaglio i profumi: intenso, complesso e fine.
Traminer Aromatico “Vigna Caselle” di Maso Cantanghel.
Questo è una sintesi, un giudizio finale sui profumi sentiti, legati alla tipicità del vino analizzato. È il parametro più problematico perché legato ancora di più all’esperienza, alla capacità di giudicare come è normalmente accettato fare. Bisogna affidarsi alla memoria e a decine di degustazioni guidate in cui le indicazioni di “abbastanza fine”, “fine” e qualche “eccellente” hanno permesso di mettere i paletti su quanto debba essere elegante e piacevole, desiderabile, un insieme di aromi per meritare un premio extra (discorso non diverso dall’esperienza per valutare l’originalità di un’opera di fantascienza rispetto alla media). Come avviene pure nel caso del gusto, “eccellente” indica un vino che non è solo molto, molto elegante, ma che è più elegante di tanti altri dello stesso tipo, per cui si sconsiglia caldamente di darlo e di ripiegare su un più sicuro “fine” a meno di non aver gustato decine o centinaia di vini di quel tipo, di produttori diversi e di annate diverse.
In questo sito potete trovare le foto dei profumi dei vitigni mostrate prima, realizzate da Colin Hampden-White.
La gran varietà di puzze non permette di lodarne il bouquet. La grande intensità di queste puzze non è positiva, anzi. La piacevolezza complessiva è inaccettabile. Spesso i “vini del contadino” (orgogliosamente fatti in assenza di qualsiasi capacità tecnica di cantina), in particolare quelli più torbidi, hanno i profumi di un tombino aperto.
Cercherò di essere breve perché anche se è l’aspetto più importante nella valutazione, perché un vino di ottimi profumi e splendido colore che sa di annacquato in bocca non è un vino che invoglia a ricomprarlo, è anche così complesso da permettere di scrivere decine di pagine se mi lascio trasportare e, cosa molto importante, non è né interessante né spendibile per i novellini come la questione dei profumi.
Un vino verrà valutato in bocca su due famiglie di sensazione: morbidezze (zuccheri, alcoli, polialcoli) e durezze (acidi, tannini e sostanze minerali). L’equilibrio tra queste due famiglie determina l’equilibrio del vino: un bianco sarà “abbastanza equilibrato” anche se virato un po’ verso le durezze e un rosso lo sarà anche se punta un po’ le morbidezze. L’equilibrio raramente sarà perfetto per cui un “equilibrato” si può dare anche se il bilanciamento non è esatto. Il “poco equilibrato” indica un netto, sgradevole, trionfo di una famiglia sull’altra. In certi vini spiccatamente portati per tipologia a essere ancora più morbidi o ancora più duri, si potrà dare un “equilibrato” nel momento in cui (e qui fa comodo l’esperienza con quella tipologia di vino) raggiungono la massima capacità di bilanciare i valori anche se questa sarebbe un “abbastanza” in altri casi. A un vino giovane, vivace, si perdonerà quell’acidità in più. In un vino maturo si accetteranno morbidezze superiori, perché l’acidità si sarà ridotta (e i tannini ammorbiditi). In uno spumante va tenuto conto l’effetto ulteriore dell’anidride carbonica che spinge i sapori e accentua le durezze.
L’intensità del vino è quella dei sapori in bocca, equivalente a quella dei profumi al naso (la botta). Lo stesso discorso sulla gradevolezza visto al naso vale per valutare la qualità in bocca.
La persistenza richiede un discorso più preciso. Quando si deglutisce il vino percorre la gola e scende nello stomaco, bagnando tutto, scaldandosi nel corpo (un vino a 6-20 gradi incontra di botto 36-37 gradi) e mischiandosi con i fluidi corporei. L’aria calda dell’espirazione si mischia con i profumi del vino e li restituisce alla bocca, simili a quelli al naso o mutati in nuovi profumi. La persistenza (Persistenza Aromatica Intensa, PAI) indica quanto è vario il bouquet di profumi che ritorna e quanto a lungo si continua a percepirlo con forza, prima che si riduca a una nota di sfondo.
Il modo più semplice per valutarla è tenere conto dei secondi di durata degli aromi e poi compensare in difetto se gli aromi sono troppo pochi o se non mutano. Le tempistiche ufficiali AIS sono: “corto” (1 secondo o nulla, sempre inaccettabile), “poco persistente” (2-4 secondi, accettabile in un vino giovane e beverino), “abbastanza persistente” (4-7 secondi), “persistente” (7-10 secondi), “molto persistente” (oltre 10 secondo, possibilmente anche un minuto e oltre).
Per i due valori più alti non bastano i tempi, serve anche che il vino muti, riporti prima tutti gli aromi del naso e poi si trasformi in aromi nuovi. Deve costruire una gradevole novità retro-olfattiva, come annusare due buoni vini al prezzo di uno. Se questa mutazione non avviene, si può scalare di un livello il valore. Se il vino ha una buona durata (4-7 secondi), ma non ripropone deglutendo tutti (o quasi) gli aromi del naso, si può valutare di penalizzarlo in sede di scheda a punteggio dandogli una Sufficienza invece di un Buono. Per i due valori inferiori direi che basta la durata.
“Mi hai scorreggiato nel calice?” – “Ma che dici, sei scemo?”
“Seriamente.” – “Sì…”
Si parte avvinando la bocca, per pulirla da sapori precedenti e farle incontrare il vino per la prima volta. Si prende un piccolo sorso (1,5-2 cl), impugnando ovviamente il calice come sempre per lo stelo o per la base (così non si scalda il calice e non si sniffano le eventuali puzze della mano), e lo si fa girare in bocca. Se si vuole si può sputare, tanto non era per la valutazione.
Secondo sorso più piccolo (1-1,5 cl), ma sufficiente per muoverlo bene in bocca. Se volete potete inspirare attraverso i denti per spingere con più forza il vino sui recettori gustativi e far volatizzare meglio gli aromi, ma evitate di fare rumori di gargarismi o, peggio ancora, proprio i gargarismi! Con la lingua muovete il vino nella cavità orale sfiorando il palato, in modo che il vino tocchi ogni superficie (se è un rosso anche le gengive davanti con un piccolo movimento di labbra, per valutare meglio i tannini). Deglutire ed espirare per valutare la persistenza. Si può far scendere solo una lacrima di vino in gola e sputare il resto, se ci si aspetta di degustare 30-40-100 campioni (normale presso una fiera o una degustazione per lavoro).
Se però ne dovete degustare pochi, una decina, meglio ingoiare e far esprimere per intero il vino. La mancanza di deglutizione durante le ore e ore di analisi dei degustatori professionisti è motivo di giustificata critica da parte di molti esperti e produttori di vino, che si sentono defraudati magari di importanti doti di persistenza studiate apposta nel loro vino anche a scapito di altro. Capita, ma non ci si può fare molto: se si potessero bere solo 20 campioni invece di 100 si impiegherebbe il quintuplo del tempo e dei costi (vacanze, personale, affitto locale).
Dopo aver deglutito si mastica a bocca vuota, durante la valutazione della persistenza, per sentire se si sentono gradevole sensazioni di solidità in bocca a conferma ulteriore di una importante quantità di materia estrattiva (utile con vini di grande struttura). La materia estrattiva o “estratto secco” è semplicemente la quantità di materia solida che è presente nel vino e si misura in grammi per litro (il produttore fa evaporare tutto e la pesa). È sui 15-20 grammi in un vino bianco, più leggero e basato sull’acidità, ed è sui 20-30 grammi in un vino rosso. Un grande rosso come l’Amarone della Valpolicella può partire dai 32 grammi/litro in su ed esistono anche bianchi di grandissima struttura e capacità di invecchiamento, come l’eccelso Furore Bianco Fiorduva di Marisa Cuomo (uno dei migliori vini bianchi del mondo, presente in piccoli lotti nei ristoranti di lusso da Londra a Tokyo), che girano sui 25 grammi come un rosso. L’estratto secco in un vino aiuta a determinarne la “struttura”, come vedremo dopo.
Se il vino che state bevendo ha provenienza extra-europea e sembra aver fatto botte, provate a tastare il palato con la lingua dopo aver ingoiato. Se sentite un leggero sentore di liquirizia allora la botta usata non ha impiegato legni europei, ma legni diversi. Non è un problema di qualità, tanti legni extra-europei sono ottimi, ma è un problema di onestà: non è raro che un produttore, magari Argentino (la loro qualità è come la nostra 40 anni fa), si vanti di aver usato botti di legni pregiati europei… e quando va bene sono legni americani, quando va male ha fatto la zuppetta con la busta dei trucioli dentro al vino per dargli sentori legnosi (un po’ come fare il tè) sgradevoli per gli esperti e adatti solo a fregare i polli locali.
Cercando “spit or swallow” mi sono imbattuto in immagini diseducative di fanciulle adepte della freikörperkultur che mostravano sulla lingua del Moscato d’Asti pallido e torbidissimo, chiaramente guasto e affetto da morbo filante. Però ho trovato anche questa foto con la didascalia “My little buddy helped me taste the wines“.
Molto più sicura per il mio pubblico di signorine per bene.
Gli zuccheri offrono una sensazione dolce, soprattutto sulla punta della lingua, e una morbidezza vellutata nel resto della bocca. Di norma il vino, se non è da dessert, è “secco” (meno di 10 grammi/litro di zucchero) o al massimo “abboccato” (10-30 g/l), ma il gusto prevalente al giorno d’oggi in Europa è quello secco (spumanti inclusi). I vini da dessert possono essere anche “amabili” (30-50 g/l) o “dolci” (50-100 e oltre g/l). Il Sangue di Giuda è dolce. Il Moscato d’Asti con i suoi 150 g/l è al limite dello “stucchevole” (aggettivo che indica una dolcezza fastidiosa e nella scala di superdolcezza dei coniglini equivale ad “abboccatino”), tanto che va servito a 6 gradi per mitigarne con il freddo (che alza le durezze complessive, compensando un po’) e a temperatura maggiori, figurarsi a 20 gradi, molti lo troverebbero troppo dolce.
L’alcool lo possiamo leggere in etichetta, ma vini più o meno capaci di tenerlo a freno possono risultare leggermente più o leggermente meno caldi a livello di sensazione pseudo-calorica, ovvero di quanto ci scaldano dopo aver deglutito. C’è il “leggero” del Moscato d’Asti da 5,5% e il “poco caldo” di certi vinelli deboli da 10% di volume in alcool. La gran parte dei vini è “abbastanza caldo” (11-12,5%, tipicamente bianchi) o “caldo” (12,5-15%, tipicamente rossi). “Alcolico” (15-20%) è riservato ai vini rinforzati e aromatizzati, come il Marsala. L’alcool è bene che si senta come calore nel corpo: in un grande vino, come un bel Amarone Santa Sofia del 2007 (5 grappoli del Bibenda), non si sente alcool né al naso né in bocca, nonostante sia un 15%, perché è tutto occultato dalla sua possente struttura.
I polialcoli determinano la morbidezza del vino. La sensazione è ancora quella di una vellutata morbidezza, come se fosse molto dolce, ma senza la dolcezza. Un bevitore inesperto, come un mio amico, bevendo il Traminer Aromatico di Maso Cantanghel ha subito percepito una dolcezza importante senza che fosse sgradevole proprio perché non era dolce. Aspirando in punta di lingua ha infatti potuto notare che non veniva in nessun modo stimolata. La grande morbidezza in bocca era stata annunciata dalla grande consistenza nel calice, indice di tanta glicerina. I vini in genere sono “abbastanza morbidi” o, se ben fatti e ben strutturati, “morbidi”. Raramente sono “poco morbidi”, anche quando si tratta di vini giovani e beverini. “Pastoso” è la mielosa morbidezza di certi grandi vini da dessert passiti, ma non è un vantaggio e spesso “morbido” è sufficiente anche per descrivere loro. Se il vino in bocca pare sfuggente, privo di ogni morbidezza, come se non ci fosse nemmeno (peggio dell’acqua minerale?), il vino è “spigoloso” e questa è una situazione inaccettabile (mai capitata una schifezza simile, nemmeno coi vini nel TetraPak).
Morbidezza.
Acidi. L’acidità procura una salivazione istantanea, concentrata ai lati e davanti alla lingua. Il vino bello “fresco”, servito freddo per esaltarlo ancora di più, che fa sbavare un po’. L’acido tartarico è il più comune e contribuisce dando quel nerbo acido che sarà parte importante della struttura nei vini bianchi e negli spumanti. Ha un sapore duro, un po’ aspro ed è presente in tutti i vini (2-5 g/l). Anche l’acido malico è aspro e contribuisce alle sensazioni di frutta acerba, per esempio di mela acerba in un vino bianco giovane (può non esserci o essere abbondante quanto l’acido tartarico, 0-5 g/l). L’acido malico è quello che incide maggiormente ad abbassare il pH complessivo del vino. Ci sono anche altri acidi: citrico (punta di citrino, di agrumato), lattico (sapore rotondo, piacevole), succinico (amaro e sapido), acetico (acre e accettato solo in quantità minime, se aumenta il vino puzzerà sempre più di aceto).
Gli acidi hanno due funzioni principali: stimolare la salivazione dando una sensazione di freschezza in bocca e imprimere i sapori più freschi, fruttati e floreali, nelle papille gustative (e qui la puntina di acetico aiuta, essendo il più penetrante).
L’acidità si valuta in base alla freschezza: “piatto” (nessuna freschezza, nessuna salivazione, inaccettabile); “poco fresco” (poca salivazione stimolata, normale nei vini molto maturi che hanno già perso acidità per evolversi); “abbastanza fresco” (buona salivazione); “fresco” (abbondante salivazione); “acidulo” (quando l’abbondanza diventa proprio eccessiva, la saliva è fluidissima e si sente una leggera contrazione gengivale: inaccettabile se non in pochi vini di cui è tipica, come i Vini Verdi del Portogallo).
Tannini. Tra i polifenoli del vino vi sono tannini e pigmenti, presenti nelle bucce e nei vinaccioli (i semini negli acini). L’estrazione dei tannini è legata a quella dei pigmenti, infatti macerando in rosso (ovvero con le bucce) per estrarre i colori si estraggono anche i tannini. I vini bianchi hanno pochissimi tannini, magari giusto qualcosa a livello olfattivo o di gradevole sensazione amaricante ricevuto dal barrique, per cui non si valutano i tannini nel loro esame. I tannini contribuiscono nei rossi a dare struttura e capacità di invecchiamento, a scapito di una maggiore aggressività e asprezza nel vino quando viene messo in commercio. Negli anni ’60-’70 andò di moda macerare l’uva con i raspi, per estrarre i più feroci e aggressivi tannini che esistano nell’uva (ben peggiori anche dei pessimi tannini del vinacciolo): i vini che ne uscivano non si potevano bere prima di 10 anni, erano rivoltanti come un caco acerbissimo, ma acquisivano in cambio la capacità di durare e maturare (evolvere positivamente sviluppando eleganze e profumi sempre nuovi) per 40-50 anni. Tant’è che è più facile trovare oggi una bottiglia di Barolo ancora buona tra quelle di fine anni ’60 che tra quelli degli anni ’80.
Lo sguardo di chi ha incontrato i raspi nel vino appena fatto.
I tannini si esprimono nel vino dando una sensazione di secchezza in bocca e di astringenza, di rugosità su palato, lingua e gengive (se senti solo secchezza è facile che il vino sia “poco fresco”), assieme a una nota amara nel retrogusto. Se i tannini sono ammorbiditi, ovvero sono stati ceduti dal legno della botte e sono evoluti in lunghe catene per effetto della polimerizzazione nel corso del tempo, si sentirà una nota amaricante gradevole (mandorla amara, ammandorlato) che si abbina con eleganza agli altri sapori e si percepirà una bella struttura nel vino.
Se i tannini sono forniti dalle bucce o dai vinaccioli sono “tannini verdi” e avranno più astringenza e magari una punta amara sgradevole. I “tannini verdi” ci indicano una potenzialità di invecchiamento (di diventare da rosso rubino a rosso granato, per esempio, o se è già granato come un Barbaresco di evolvere ancora). Col tempo i tannini evolvono tutti in lunghe catene e il vino si dota solo di “tannini nobili”, pura struttura e sostegno del vino, e il vino perde qualsiasi ruvidità divenendo “poco tannico”. La maggior parte dei vini rossi è “abbastanza tannica”, ovvero leggermente ruvida quanto basta per farli durare ed evolvere un po’. I vini da invecchiamento nascono “tannici”, più o meno eleganti e bevibili in base ai tipi di tannini. Se la tannicità è proprio insopportabile, come masticare un caco acerbo, si dice “astringente” ed è una condizione inaccettabile per un vino da consumare ora (un Barolo di fine anni ’60 appena fatto).
Sostanze minerali. Questi sono fondamentalmente anioni di acidi organici e inorganici, oppure metalli come ferro e potassio. Contribuiscono alla struttura (sono parte dell’estratto secco) e danno una sensazione saporita, come fa il sale nel cibo. Nel caso dei vini bianchi di forte nerbo acido la sapidità (altro nome di questa durezza) può risultarne un po’ mascherata, ma i buoni vini bianchi moderni si fanno con una sapidità sufficiente da non venire oscurata in modo che il sapore rimanga vivo e la struttura “di corpo”.
L’evoluzione dei vini tende ad abbattere l’acidità, permettendo di sentire meglio la componente minerale. Un vino non deve essere né “scipito” (privo di sapore per quanto manca di sale) né “salato” (una spiacevole sensazione salina tollerata solo in certi vini di aree salmastre o molto aride, per via della tipicità locale). La maggior parte dei normali vini ben fatti, anche da pochi euro, sono “abbastanza sapidi”, quelli con una netta e gradevole sensazione minerale, molto gustosa, sono “sapidi” (gran parte dei vini di buona qualità) e i vini poco gustosi che fanno sospettare di essere annacquati sono “poco sapidi”.
Anche la sapidità fa salivare, come l’acidità, ma è una salivazione diversa che avviene con maggiore ritardo, concentrata dietro e al centro della lingua.
Durezza Ancora morbidezza.
La struttura è data da due elementi principali: la materia estrattiva e l’acidità (per i bianchi) oppure i tannini (per i rossi). I bianchi hanno di norma un superiore nerbo acido attorno a cui costruiscono la loro struttura. I rossi si affidano a catene più lunghe possibili di tannini. Nell’insieme, muovendo il vino in bocca, si deve percepire di non avere acqua, ma un qualcosa che appare più voluminoso, corposo, in relazione a quanto è grande la sua struttura. I buoni vini sono praticamente tutti di “corpo”.
I vini importanti da invecchiamento, con tanto estratto secco, alcool e tannini più o meno ammorbiditi, come Amarone o Barolo, sono “robusti”, danno l’illusione di poterli masticare da quante sensazioni lasciano in bocca anche dopo aver deglutito. I vinelli da bere giovani, i prosecchini da 4 euro, sono tendenzialmente “deboli” e spariscono in gola senza lasciare tracce del loro passaggio se non dei profumi (persistenza).
Alla fine di tutto l’ambaradan resta da dire se il vino, nel suo complesso, merita l’acquisto in previsione del consumo oppure di una lunga conservazione in cantine attrezzate (temperatura stabile tutto l’anno, niente sbalzi, meglio ancora i mobiletti refrigerati da conservazione bottiglie). Il vino potrà evolvere? Si valuta il colore, la freschezza, il tannino in relazione alla tipologia, al territorio, alle previsioni per quell’annata a livello climatico e alla storia evolutiva nota dei vini di quel produttore. Domanda base-base: ha acidità a sufficienza da spendere per evolvere e tannini adeguati per costruire una struttura che regga l’evoluzione?
Hai di fronte un vino che ha appena finito il tempo minimo del disciplinare, che può essere “pronto” (val la pena berlo già ora), “giovane” (troppo presto, deve maturare un altro po’ se no ha delle sgradevolezze… da non confondere con il giovane inteso come aggettivo di certi vini pronti che appena nati, giovani, sono già da bere e difficilmente miglioreranno) o più spesso un “pronto” tendente al “giovane”, cosa fare? Costa 20 euro a bottiglia questo vino ancora un po’ troppo verso la giovinezza, un po’ asprigno e poco evoluto: ne compro 30 bottiglie, le faccio evolvere per 5-10 anni così diventa “maturo” (la piena evoluzione: tanti Franciacorta nascono “maturi”, dopo 36-60 mesi sui lieviti), e le rivendo a 60-100 euro? Cosa so del produttore? Tende a fare vini che evolvono bene, ma con un tasso alto di decessi (diventano “vecchi” o si sfaldano proprio)? Se investo 400 euro in 20 bottiglie, me ne sopravviveranno 15 da rivendere a 80 euro triplicando l’investimento iniziale in sette anni? Oppure investo tutto in BOT di un qualche paese del secondo mondo a rischio default, in una barca per gamberi o perfino in quell’azienda appena nata con il simbolo della mela morsicata?
Per questo motivo si va al Vinitaly ad assaggiare il Barolo. Se una persona comune si lancia sul Barolo non spicca per furbizia, perché il Barolo appena fatto è una porcata, è asprissimo, è “giovane” e non va bevuto. A malapena si può bere il Barbaresco del 2009 ora nel 2013, vino ben più accomodante rispetto a una grande Barolo (ed è ancora di un “tannico” ai limite dello sgradevole, che obbliga a mangiarci assieme cibi ben grassi per ungere la bocca e ridurne l’impatto astringente a livelli accettabili). Uno fa la coda in zona Barolo, si beve una roba che fa desiderare le martellate sulle palle e fine. Ma se uno è un esperto del settore, se sa cosa vedere dietro la violenza dei tannini, può prevedere l’evoluzione futura di quel vino e decidere se comprarne delle bottiglie o come parlarne in un articolo.
Se andrete in futuro al Vinitaly fate come ci insegnano al corso: non lanciatevi sui vini famosi che trovate in ogni enoteca decente (Barolo, Amarone, Brunello, Franciacorta), ma su quei vini che non escono dalle loro regioni, su ciò che non potete bere nella vostra città o nelle aree che frequentate, magari dedicando ogni edizione del Vinitaly a una regione diversa (o una per giorno, se state 2-4 giorni in “vacanza studio”) che avrete prima studiato a fondo per individuarne le meraviglie di cui richiedere l’assaggio. Io per motivi di tempo/lavoro mi sono perso la 2013, ma se andrò alla 2014 quasi sicuramente la dedicherò alla Campania, regione di vini e vitigni straordinari per varietà e qualità.
L’armonia rappresenta la sintesi di tutte le caratteristiche del vino ed è legata alla coerenza e alla qualità. Un vino deve avere tutti i parametri di alto livello, con qualità “fine” e buoni voti anche nel resto, per aspirare alla definizione di “armonico” che alcuni degustatori rifiutano a tutti i vini che non rappresentino quanto meno l’eccellenza anche nel voto a punteggio (91+ punti). Vini che si esaltano sopra i colleghi, divenendo un’esperienza di grandi emozioni che i normali vini non possono dare. La gran parte dei vini, dal vinello giovane a 2 euro fatto decentemente fino al Barbaresco da 20 euro appena uscito in commercio, sono “abbastanza armonici”. “Poco armonico” indica solo vini inaccettabili per l’eccessiva e sgradevole discrepanza delle caratteristiche oppure alla pessima qualità generale (seppur coerentemente pessima).
Maturo o vecchio?
Il Barone di Munchausen si esprime al meglio nella demenza senile maturità.
Oltre a tutta l’analisi descrittiva il degustatore deve essere in grado di esprimere una valutazione ancora più precisa, prendendo posizione su ciò che ha provato e dichiarando quando un dato parametro è “buono”, “sufficiente” o “eccellente” (o perfino “insufficiente” e “scadente”). Questo voto non sostituisce l’analisi descrittiva, la completa solo per chiarire le differenza tra dei parametri da premiare e altri da non premiare pur avendo ricevuto lo stesso valore. Per esempio in un “abbastanza fine” (ovvero una qualità priva di sgradevolezza sensibili) si trovano tanti vini, da quello al limite delle puzzette fino a quello al limite con il ricevere un “fine”: non è secondario decidere se dare un “buono” o un “sufficiente”. Idem tra i vini “molto persistenti” o “persistenti” c’è chi sarà semplicemente normale nella sua categoria in quanto lungo pur senza trasformazioni straordinarie e chi avrà quel tocco in più che stupirà: ecco la differenza tra “eccellente” e “buono”.
I punteggi. Su ogni parametro si applica un voto che si esprime come valore da 1 a 5, da “scadente” a “eccellente”. Questo valore va moltiplicato per il suo moltiplicatore dedicato che potrete vedere tra pochi paragrafi, nella scheda a punteggio riportata. La quantità di punti massimi assegnata a ogni parte dell’analisi è legata all’importanza di quell’analisi: 15 punti al visivo; 30 all’olfattivo; 40 al gusto-olfattivo; 15 all’armonia.
La grande bellezza visiva è secondaria rispetto ai suoi profumi e una grande eleganza di profumi può ben poco quando un vino in bocca è insapore o sgradevole. Il punteggio massimo è il 100 e secondo le diverse scuole di pensiero può essere assegnato solo ai più grandi vini esistenti, quelli meritevoli di eccellere sopra ogni altro in ogni aspetto, giunti al degustatore senza traccia del peccato originale di essere prodotti imperfetti dell’umanità imperfetta, oppure non può essere assegnato a nessuno perché rappresenta solo una perfezione ideale impossibile (come la bellezza di Gamberetta) ed ecco allora anomalie come il 99,5 dato a un vino paradisiaco, pressoché incredibile nel suo genere e in assoluto… inventarsi il mezzo punto in meno per non dare il 100 dottrinalmente impossibile.
Sarebbe bello poter dare solo una fettina dei punti (per esempio su un vino più che “buono”, ma non davvero “eccellente” per persistenza poter assegnare 1 punticino extra invece di decidere solo tra un pieno aumento di 2 punti oppure niente), ma secondo la scheda ufficiale non è possibile farlo. Bisogna allenarsi a decidere, anche se spesso sembra ingiusto: in fondo i margini di accettabilità dei voti e le dimensioni delle fasce dei punteggi rendono l’errore poco significativo (soprattutto su centinaia di degustatori di cui poi fare la media dei voti per un libro).
Sotto i 60 punti c’è l’insufficienza igienica, uno o più elementi hanno fallito in modo intollerabile, per cui di norma non si da nemmeno il voto (addirittura ci si ferma al primo punteggio “scadente”) e si dichiara che roba simile non è buona nemmeno per i maiali (che sia un 58 di un Tavernello sfortunato con delle puzze oppure il 30 di un vino del contadino davvero infimo). Se una simile serietà di giudizio fosse applicata alla narrativa, le librerie potrebbero buttare almeno la metà dei libri presenti.
L’aspetto qualitativo tecnico, l’originalità e l’intelligenza della massa dell’editoria narrativa italiana, tradotto in termini visivi e olfattivi di facile comprensione.
Due famiglie sole, fruttato e floreale, sono poche: il vino è “poco complesso”. Essendo poco meno di “abbastanza”, la sufficienza, devo sempre dare un voto insufficiente ai vini poco complessi? Ovviamente no, perché alcuni vini sono pensati apposta per essere semplicemente fruttati e beverini, concentrando ogni sforzo nel rendere bene un invitante profumo fruttato (spumantizzando col Metodo Martinotti invece del Metodo Classico, per esempio) ed essere piacevolmente freschi, adatti per l’aperitivo.
Ovviamente mi piacerebbe qualche nota in più anche in un prosecco, essendo comunque uno spumante, ma se è “poco complesso” gli do comunque la sufficienza. Se fosse un Barolo, che normalmente è “complesso” di famiglie ne hanno almeno quattro o cinque (più o meno ampie nel loro interno come sfumature, arrivando anche ad “ampio”), allora due sole famiglie sarebbe non solo “insufficiente”, ma valuterei la grave insufficienza oppure di penalizzare la qualità complessiva per mancanza di varietà sfumature caratteristiche. Un caso in cui la complessità è così scarsa da compromettere anche il voto di sintesi sulla qualità.
Vogliamo parlare della struttura? Anche qui conta pesantemente la tipicità: se un “prosecchino” muovendosi in bocca si sfalda, schiuma, lo penalizzerò al voto perché è un “debole” troppo pieno, può essere “debole” e beverino senza schiumare! Invece di un buono, che darei a un prosecco che sta al limite tra il “debole” e il “di corpo” e regge perfettamente in bocca, gli darò un sufficiente. Se un grande vino da invecchiamento è “debole”, le cose cambiano: un vino che di norma è “robusto” e quando va male è “di corpo”, non può permettersi di cadere così in basso. Ecco che scatta l’insufficienza perché siamo proprio completamente fuori tipologia: non può avere la struttura di un vino semplice e beverino.
Meglio essere larghi di punteggio che stretti, ma senza esagerare: un vino che l’esperto molto rigido di giudizio valuta 76 non è “sbagliato” se un valutatore più largo di maniche lo valuta 82, ciò che importa davvero è la coerenza e affidabilità dei giudizi dello stesso valutatore. È facile, anche senza capire nulla di vino, stroncare a priori tutto per fare i finti duri e divertirsi alle spalle dei prodotti, nascondendo la propria incapacità di entrare nel merito di una rigorosa analisi tecnica. La vera difficoltà è eseguire un’analisi oggettiva che, se necessario, stronchi con piena cognizione di causa e se è nel dubbio dia un minimo di fiducia al prodotto.
Pensiamo al modo in cui Gamberetta, pur di non classificare subito come illeggibili tante opere “fantastiche” per l’assoluta mancanza di rispetto della tipicità (ovvero di idee fantastiche), cercava di proseguire l’analisi andando a vedere se qualcosa si poteva salvare a livello tecnico (e tante opere le ha salvate e premiate). Certo che se le opere fanno schifo e non si salva nulla, va detto. Idem non tutti i vini nascono buoni, alcuni sono a malapena bevibili come certi libri sono brutti in modo sopportabile (e un tempo tanti vini erano pessimi in modo intollerabile come ora molti romanzi sono brutti in modo vergognoso per l’autore e disonorevole per l’editore: la situazione editoriale italiana di oggi ricorda quella vitivinicola di 50 anni fa).
Come dare i punti. Guardando la scheda e dopo aver letto le fasce di punti e cosa significano, è facile immaginare che il modo più semplice per analizzare un vino non è dare i punteggi uno per uno, ma immaginare già durante l’assaggio (facendo uso di esperienza e memoria) un range di 5-6 punti in cui collocarlo (es: 75-80,78-82, 80-85, 85-89) e dargli per partire il Buono su tutti i valori. Parte come un 80. Poi ci si domanda dove premiarlo e dove penalizzarlo, aumentando o riducendo il punteggio. Se premio l’Intensità in bocca (x1) da 4 a 5 e penalizzo la Persistenza (x2) da 4 a 3, ecco che 80+1-2 fanno 79 punti.
Lo scopo non è direi “vale 82” e poi inventarsi un modo per arrivarci: lo scopo di individuare un punteggio preliminare è solo quello di avere un riferimento (piuttosto largo) in cui muoversi per evitare di cadere in un eccesso di critiche oppure di complimenti numerici, scegliendo solo cosa penalizzare e cosa premiare con convinzione e solide motivazioni.
Ma se i pareri sono così legati alle sensazioni e tutti ne hanno di proprie allora i punteggi dei singoli degustatori saranno sempre inaffidabili!
RISPOSTA:
No, non è così. I singoli punteggi possono essere inaffidabili perché il degustatore sbaglia (è poco allenato, è stanco, è arrabbiato quel giorno e odia tutto, è raffreddato e non vuole ammetterlo) o perché la bottiglia è fortunata o sfortunata (il vino è vivo, muta ed evolve, può migliorare oppure iniziare a subire piccoli guasti che ne compromettono un po’ la qualità), ma in generale i degustatori seri, che rispettano ciecamente il protocollo di analisi, forniranno valori sufficientemente simili.
Generalmente la maggioranza sarà nello stesso range di 5 punti e pochissimi nel range superiore o in quello inferiore. Non ci sarà chi in virtù del “i gusti sono gusti” darà 95 punti a un vinto da 80 mentre un altro gli darà 60 punti risicati. Perfino noi del secondo livello AIS Bergamo del 2013, che siamo 40 e praticamente tutti poco esperti, alla domanda di che fascia di punteggio daremmo (su vini di cui ci viene nascosto ogni dettaglio d’etichetta), abbiamo sempre dato in massa risposte che hanno reso orgogliosi la nostra direttrice e i relatori della lezione (provenienti anche da regioni diverse dalla Lombardia).
Alla simulazione d’esame dopo il secondo livello mi hanno ordinato di fare una scheda di un vino rosso ignoto. Unico indizio fornito: non vale dai 90 punti in su e non è una porcata da 60 punti. Indizio di rara inutilità visto che il range 70-89 non è proprio piccolo (41 vini su 44 provati al secondo livello hanno ricevuto punteggi tra 75 e 88 da parte dei relatori, solo in 3 hanno ricevuto 89, 90 e 91, oltre il 70% dei vini rientrava nella fascia 80-85 e la “moda” era 83). Lo provo, faccio le due schede. Ho un’incertezza nei profumi: sento uno speziato delicato, a metà tra la pungenza del pepe e la dolcezza della vaniglia. Aspetto. Annuso ancora dopo aver completato la scheda (79 punti: ho punito persistenza perché sentivo la durata corta e senza variazioni e ho premiato l’intensità del gusto). Ora mi pare chiara la nota vegetale, più che speziata. Ho un attimo di timore a scriverle entrambe. Scrivo solo quella. Poi correggo e le metto entrambe, ma l’aver citato assieme pepe e vaniglia mi lascia perplesso: ho sentito male?
Arriva la correzione dell’esercizio. Il relatore chiede che voto abbiamo dato e le risposte la soddisfano: ci dice che sta tra i 75 e gli 81 punti e il voto più equilibrato è un 78-79. Bingo, io ho dato 79. Lo analizza. Tutti i parametri analitico-descrittivi uguali ai miei. Idem i profumi, tranne per un dettaglio: lui dice subito che c’è la spezia (sia pepe che vaniglia) e non cita l’erbaceo. Un mio collega gli chiede “ma non c’è anche una nota vegetale?” Il relatore sniffa meglio e dice che sì, ora che si sta scaldando un altro po’ si sente una nota vegetale, ma non è tanto facile da sentire. Avevo sentito tutto giusto, ma per timidezza mi stavo facendo ingannare dalla trasformazione legata al riscaldamento col passare dei minuti e dal timore di citare due spezie in un vino, in fondo, di modesta complessità.
Il vino era un Morellino di Scansano da 10 euro. Non capivo cosa fosse esattamente, ma ero sicuro di averlo già bevuto recentemente (con Omar Serafini di Fantascientificast al ristorante, a fine marzo) e che fosse un rosso piuttosto “anonimo”. Mi veniva in mente solo un “secondo me è un Sangiovese” detto a fine scheda al mio vicino… e infatti era un Morellino base, che al 85% minimo è uvaggio Sangiovese. Punteggio del relatore: 78… penalizzando solo la persistenza. Bingo di nuovo: quello era il parametro da penalizzare!
L’analisi sarà pure teoricamente soggettiva perché usa i sensi, ma intanto i risultati su decine di persone sono affidabili, coerenti e applicando il metodo oggettivo alla lettera perfino un gonzo come me sui vini “facili” ci azzecca senza fatica e senza errori su nessun parametro.
Ho scelto sei esempi di analisi svolte durante il secondo livello del corso AIS a Bergamo: un vino che parte bene al naso e delude in bocca; un buon vino la cui tipicità obbliga a conoscere molto bene quei vini in quelle regioni per valutarlo al meglio; un grande vino da invecchiamento (a prezzo accessibile); quattro; un ottimo spumante il cui nome famoso fa gonfiare troppo il prezzo; un Porto venuto veramente male per la sua tipicità.
Fino a qui è un bel Pinot Nero.
Al naso partiva bene, considerando soprattutto che è il Pinot Nero low-cost dell’azienda (quelli veramente fighi li vende a cinque-sei volte quel prezzo), e faceva sperare in un bel miglioramento della linea base verso gli 80-82 punti, ma in bocca è andato peggio del solito. Mancava nettamente di sapidità e struttura, dando l’idea in bocca di essere stato annacquato. La persistenza è risicata, tendente al poco persistente. Brutta sorpresa!
Colore molto bello in generale per un vino bianco, che unisce riflessi evoluti con riflessi giovani, e splendido per questa tipologia di vini così a nord. La consistenza è grassa al limite dell’oleoso, ma non così tanto da penalizzarlo, anzi, va bene in questi vini.
La freschezza è ai limiti dell’acidulo, ma non è ancora sgradevole e non è un elemento da penalizzare in questi vini nordici di grande acidità tipica (come non lo è in tanti grandi Champagne). Si può quindi considerare “abbastanza equilibrato” nonostante il prevalere piuttosto netto delle durezze. Chi è infastidito da simili tipicità stia alla larga da tanti grandi vini bianchi tedeschi.
Nel retro-olfattivo appaiono note diverse, agrumati più dolci e delle leggere tostature. La qualità non è eccellente, ma per essere un “fine” ha comunque quella marcia in più (si può indicare nella scheda con un “fine +”).
Un vino con un po’ di deposito anche da giovane, va sempre decantato. Le lacrime sono così lente da sembrare ferme. Il violaceo in un vino del 2008 è molto bello, indica una grande tecnica dietro e un vino di lungo invecchiamento di altissimo livello.
I profumi si alternano con grande chiarezza e pulizia e il naso li sente sempre con uguale forza, senza andare mai in assuefazione. La qualità è al confine con “eccellente” e con ancora un po’ di maturazione lo diventerà pienamente.
La grande freschezza unita alla grande struttura tannica, ma per nulla sgradevole (tannini non verdi, in parte già nobili), promettono una lunga evoluzione e ulteriori miglioramenti tra 5-10 anni. Mi aspetto che aggiungerà ulteriori 3-4 punti nel voto rispetto a quello attuale, permettendo di premiare aspetto -che io avrei già premiato- e qualità (olfatto).
Cantine del Notaio è un’azienda fondata nel 1998 da un notaio, il dottor Gerardo Giuratrabocchetti, ed è famosa per i nomi dei vini a tema: il sigillo, il rogito, la stipula, la firma.
Aspetto quattroso, profumi di ampio spettro quattrico e sapori che esprimono con meravigliosa eleganza la quattrità. Eccellenza in ogni aspetto, esaltata dal voto 4 invece del 5. Punteggio finale: 4444 perché il Quattro non è un’opinione e la matematica sì.
La punta extra di minerale può giustificare il “complesso”, se si vuole.
Più fresco che sapido. Fine pieno, verso l’eccellente. Il verdolino in un Metodo Classico dopo tutti questi anni è veramente il top.
Nota: non mi ricordo l’annata, era l’ultima messa in commercio che si poteva trovare a inizio 2013.
Archetti ravvicinati, stretti, molto belli.
Domina l’aroma del Brandy che in un vino normale sarebbe uno schifo, un alcool del tutto fuori controllo, ma in un vino liquoroso è accettabile e nel complesso è anche gradevole perché restituisce comunque l’idea appetitosa di un cioccolatino boero fatto bene: ciliegia più cacao e alcool.
Robusto in generale, ma non particolarmente per la sua tipologia. In bocca è deludente, troppo corto per la sua tipologia. L’impressione è fastidiosa perché ha proprio il sapore di un Mon Chéri e anche se il cioccolatino in sé può essere considerato delizioso, per un Porto è uno risultato di merda. Si sospetta un’annata con uve venute male, manca di estratto secco, manca di struttura. Rimane comunque da considerare che un ottimo Porto venuto di merda nella sua tipologia (prodotti abituati alla fascia 85-90 e oltre) è comunque meglio di tantissimi vini venuti discretamente bene.
La penalità su struttura e persistenza va comunque vista nel rispetto della tipologia: non è un Tavernello, come struttura e persistenza lo prende a calci nel sedere e compete ad armi pari con tanti vini molto superiori da 75-80 punti, ma per essere un Porto è troppo poco e va penalizzato.
E un bel Chianti fetente come quelli di 80 anni fa?
Continua con: la degustazione dei vini nel TetraPak.
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Dire che questo articolo è esaustivo sarebbe utilizzare un delicato eufemismo.
Ci ho messo 2 giorni a leggerlo ma ne è valsa la pena.
Pongo alcuna domanda, se lecite.
1) Al fine di capire il valore di un vino di un'annata si fanno diverse degustazioni con diversi assaggiatori con diverse bottiglie per evitare i bias dovuto al "caso singolo"?
Immagino di si, ma, indicativamente, con che ordini di grandezza?
2) Mi sembra di capire che sia necessario, per certi vini, sapere "cosa ci si aspetta", i sommelier quindi si dividono anche "specializzazione di area" (ad esempio io giudico i vini svedesi e tu quelli africani)?
3) Come mai la scala dei valori è così spostata verso il basso (cioè sotto il 60 mi pare di capire che si è nel trash, ora è vero che magari Zwei il trash lo legge e lo recensisce per il nostro diletto ma non mi vedo un sommelier smontare un vino da 20 rispetto a uno da 35), c'è un motivo (legato magari ai moltiplicatori) per il quale l'eccellenza si gioca su 10 punti e la feccitudine su 60?
4) quattro
5) E da ultimo una domanda economica: who watchs the watchers?
O meglio, quando un'azienda pone in essere un vino o un'annata, esistono organi di controllo a cui rivolgersi per avere un voto? Tipo esiste una Standard and Poor dei vini?
6) domanda bonus, dove si acquista il vino 4? la sua quattrità già mi attira.
Grazie in ogni caso.
E grazie per l'articolo merita assaj.
E poi faccio un commento di critica etica (quindi passabile di blocco secondo le regole del blog).
Siete degli ubriaconi e ammantare di belle parole il vostro insano vizio non fa altro che snaturare la sana arte del bere fino a cadere svenuti come ci insegna Bukowsky.
E la dolce ragazza con i capelli rosa che pone le domande dovrebbe entrare nella lega della temperanza invece che indugiare in tali sordidi passatempi.
1) Buona norma è avere più bottiglie rispetto al necessario per i vari degustatori e che, se qualcosa appena appena pare strano, lo si dica subito e lo si segni nella propria analisi sotto "osservazioni".
Per esempio un paio di particelle in sospensione: fermi tutti, sono solo in questo calice? Sono su tutti quelli serviti dalla bottiglia X e non da X2? Nel dubbio che una bottiglia abbia un difetto non rappresentativo del caso normale (rispetto alle altre tutte simili), si butta tutto e se ne trova una come dovrebbe essere.
Questo idealmente. Poi capita che uno abbia una sola bottiglia e valuti quella per un articolo, ma per correttezza è sempre meglio indicare ogni sospetto nel caso la propria bottiglia sia, non dico guasta, ma evoluta al di sotto della normalità che poi il cliente troverà comprandone altre.
Il vino è vivo, evolve più o meno bene, ed è meglio precisare quando si sospetta un salita (quel Traminer del 2009 maturato benissimo invece di guastarsi) e quando una discesa (due TetraPak che vedremo nel prossimo articolo).
Talvolta, soprattutto con i vini più anziani che potrebbero aver sviluppato evoluzioni diverse, si scelgono tutte le bottiglie buone e le si mischiano creando un "assemblaggio" (come fanno alcuni produttori, per esempio il taglio bordolese è un assemblaggio di vino Merlot e vino Cabernet Sauvignon), poi si valuterà quello così tutti hanno un vino identico sotto il naso.
2) Non ne ho idea in generale, ma ho visto spesso appassionati specializzati in bollicine. La posizione ufficiale AIS è che bisognerebbe bere tutto, sempre, senza concentrarsi su un solo ambito: chi beve solo e sempre Champagne, diceva un relatore (Invernizzi mi pare) potrà pure essere il più grande esperto vivente di Champagne, ma non lo è di vino in generale e non è un sommelier. Un degustatore deve avere solide basi su tutto e poi, eventualmente, una piccola specializzazione legata alla passione principale.
3) Questione puramente aritmetica. Non è nemmeno tanto strana, visto che pure noi abbiamo la sufficienza sul 6/10 al liceo o sul 18/30 all'università.
Anche io trovo la scala troppo stretta verso l'alto, portando a desiderare o l'uso di punti singoli sempre o avere più decine da sfruttare.
Però probabilmente è un falso problema, anzi, noto che proprio per evitare di dare "superpremi" a vini la cui superiorità è apprezzabile solo da pochi superesperti, Bibenda concentra sotto il massimo voto dei 5 Grappoli tutti i vini dal 91 in su.
Quando un vino è eccellente, alla fine, il gusto diventa sempre più importante. Non facciamo gli errori di certi, tantissimi, ricconi americani che invece di comprare e bere il vino da 91 punti che amerebbero si bevono quello da 96 punti che non incontra i loro gusti.
La migliore fantascienza del mondo non vale un fico secco se ciò che si vuole leggere è un ottimo romanzo storico ambientato nell'Antica Grecia...
4) Quattro.
5) Ci sono tanti privati, critici di fama mondiale, riviste di settore, che fanno divulgazione e offrono il loro parere. Alcuni sono molto seguiti, esattamente come S&P (che non è altro che un'azienda che dice cazzate se e come vuole, senza controllo), e quindi possono influenzare il mercato.
Talvolta influenzano con risultati dementi che portano a creare follie di mercato prive di appigli con la vera qualità, come quando per colpa degli americani si inizò a usare la botte su tutti i vini (rovinandone tanti adatti al solo acciaio) e negli scorsi anni con la storia del "peperone verde" (incluso il Brunello di Montalcino finito nello scandalo perché alcuni produttori hanno messo del Cabernet Sauvignon per dargli un gusto di peperone che piacesse agli imbecilli americani, peccato che il disciplinare non lo permettesse e fosse quindi illegale).
Più che le riviste e i critici, sono i ricconi russi e cinesi a falsare il mercato comprando a prezzi altissimi Borgogna a Bordeaux dei "grand cru", sequestrandoli dalla vendita e rompendo quel meccanismo di competizione che esisteva prima. Ora conta solo se il proprio Cru (terreno o vitigno, in base al contesto) è di prima importanza o di secondo livello (o peggio), non la qualità del vino che si fa, perché russi e cinesi tanto non capiscono un cazzo e pagano come oro qualsiasi roba che si fa, snobbando magari prodotti migliori di altri.
Il disastro è stato tale che la Francia, dopo un secolo e mezzo (nel 1855 vi è la prima classificazione a Bordeaux) di rigidissimo rigore qualitativo, a costo di dover declassare gli Chateau (nel senso di vigneti di proprietà), ora non può più. Declassare comporta danni economici elevatissimi che non si possono più causare (ma alzare di livello è possibile). Questo uccide la competizione, annulla lo spauracchio del dover lavorare sempre bene, e falsa il mercato.
Leggi qui cosa accadde nel 2006 quando si tentò di rifare la classifica di Saint-Emilion (attiva dal 1955, diversa da quella del 1855): http://en.wikipedia.org/wiki/Classification_of_Saint-%C3%89milion_wine
Siamo alla pura DEMENZA. E questo farà male al vino francese, anche se loro stanno resistendo molto meglio di noi italiani che ci stiamo svendendo per un tozzo di pane per fare vini "internazionali" (come li possono fare anche in Australia, Cile ecc...) invece di fare quei vini con quei vitigni unici che possiamo fare solo noi e farli scoprire al mondo. Inseguire le mode becere è "facile", ma poi tutti potranno farti concorrenza, mentre competere sulla qualità facendo fatica, ma potendo in cambio sperare in successi straordinari, è difficile.
Se tutti usassero sempre criteri oggettivi, senza drogare il mercato con i propri gusti personali e senza imporre mode (e quindi se tutti fossero educati a non farsi condizionare e plagiare), staremmo molto meglio. Anche senza scomodare l'utopia di un'umanità intelligente, basterebbe semplicemente il "NO, ANDATE A FARVI FOTTERE" compatto dei produttori di qualità. La Francia ha ignorato ogni moda e ogni gusto straniero fino a pochi anni fa, divenendo SEMPRE più forte, perché lei dettava la qualità e chiunque non fosse d'accordo doveva solo andarsene affanculo e accettare che il proprio parere non importava a chi faceva i migliori vini del mondo. Loro erano l'opinione mondiale, loro erano la qualità indiscussa, il resto del mondo era rumore di fondo di qualche critico sfigato americano che non capisce niente di vino (ma muove decine di milioni di euro di vendite ad articolo in cui loda o stronca qualcosa).
Da un po' però i primi cedimenti, l'italico inginocchiarsi al primo padrone con due monete da lanciare, sta colpendo anche loro.
6) Non lo meriti. Bevi il Tavernello che ti fa crescere sano e forte.
Grazie per le pronte e precise (e ducali) risposte alla mia curiosità contadina.
Condivido il ducale parere sulle distorsioni del mercato (di vini non so un tubero, sono una materia per nobili, ma di vile economia borghese qualcosa si).
Visto che il vino quattro è solo per la nobiltà mi berrò 4 tavernelli simulando conoscenze che non possiedo e dando sfogo ai bassi istinti proletari dopo la sbronza.
Sempre aspettando i prossimi articoli a tema.
Grazie ancora.
Pronto a sfondarti di Tavernello come se non esistessero vini buoni a 4 euro?
http://www.steamfantasy.it/blog/2013/04/23/una-orizzontale-di-vini-nel-tetrapak/
^_^
Corro a documentarmi (ossia a bere i consigli del Duca)!
Duca, mi hai annichilito... prima di questa dissertazione sapevo di non essere un'esperto, ma ora mi sento come un lombrico che abbia appena scoperto che esiste un'intero mondo al di fuori dell'humus in cui striscio (e che mangio). ç_ç
Nemmeno a farlo apposta, ieri ad una festa mi hanno fatto assaggiore un liquore all'anice... nonostante il gusto mi sembrase familiare (non era il primo liquore all'anice che bevevo), non sono riuscito ad identificarlo finchè non mi hanno detto cos'era.
Sono senza speranza...
Le prime volte è normale non riconoscere nulla. E dopo è normale tentennare la prima volta che si incontrano profumi già noti in contesti però diversi.
Se, per dire, comprassi uno Champagne Rosé S.A. di un buon produttore come Moët & Chandon e sentissi dentro la ciliegia, starei di sicuro un minuto a domandarmi "Sento davvero la ciliegia? Posso dire ciliegia nelle bollicine rosé? Non è che è lampone e fragola più qualcos'altro sovrapposto e mi confondo?" anche se la ciliegia l'ho sentita decine di volte in decine tra rossi e rosati fermi.
LETTERA APERTA ALL’ASSOCIAZIONE ITALIANA SOMMELIERS (A.I.S.)
Caro Delegato,
sono una persona interessata a fare il corso di sommelier e scrivo per chiederti delle informazioni a proposito.
Alcuni dei miei amici hanno frequentato il corso di sommelier e dopo aver assistito ai 3 livelli mi hanno raccontato che sono accaduti dei fatti e che si sono venute a manifestare delle situazioni poco chiare e del tutto imbarazzanti per la Delegazione e la medesima Associazione Italiana Sommeliers.
Alla luce di quanto mi hanno detto, prima di iscrivermi preferisco sollevare alcune domande per poter disciogliere le mie inquietudini e allo stesso tempo dissipare tutti i dubbi e le incertezze che sono state generate.
Quello che a me piacerebbe sapere é quanto segue:
1. ASSENZA SEDE FISICA: [spoiler]mi é stato riportato che non esiste una sede física della delegazione, nel senso che il corso viene dato in hotels o strutture similari senza che ci sia nessuna sede che identifichi la Delegazione che rappresenta l’Associazione Sommeliers Italiana; pertanto, questo denota una carenza molto grande visto che trattandosi di una associazione che dovrebbe impartire cultura enogastronomica a livello nazionale, risulta essere quasi inverosimile che non abbia una sede fisica come suole essere logico quando si parla di istituzioni che elargiscono servizi di istruzione al pubblico; inoltre, la domanda che sorge spontanea é la seguente: non avendo una sede fisica, non è materialmente possibile che possa mettere a disposizione dei corsisti una biblioteca tematica e settoriale sui temi principali del corso di sommelier, vale a dire enologia, enogastronomia, gastronomía, degustazione, servicio del vino, ecc. Risponde a veritá quanto mi é stato riportato dai miei amici?[/spoiler]
2. BASSA QUALITÁ DIDATTICO-ACCADEMICA:[spoiler]mi é stato detto che i relatori che impartiscono le lezioni e i degustatori che dirigono le degustazioni dei vini non sono sufficientemente preparati in quanto non in possesso di titoli di studio accademici (laurea triennale o laurea magistrale) pertinenti alla tematica trattata durante le lezioni; altresí, il livello di competenza linguistica italiana della loro esposizione non solo non é eloquente, bensí é poco comunicativo e pieno di errori a livello orale (quando parlano) e scritto (nelle diapositive). É vero quanto mi é stato detto dai miei amici?[/spoiler]
3. FUNZIONALITÁ DELEGAZIONE E ASSOCIAZIONE LIMITATA:[spoiler]mi é stato comunicato direttamente che non serve quasi a niente pagare la tessera annuale perché non ci sono agevolazioni o vantaggi di cui usufruire; addirittura, alcuni dei miei amici smetteranno di pagare la quota associativa il prossimo anno (2015) in considerazione del fatto che ormai sono stanchi di pagare per niente visto che non vengono mai organizzati eventi o manifestazioni degne di questo nome e per tutto il resto possono arrivare gli inviti a partecipare, ma si tratta solo ed unicamente di pagare di nuovo per far parte di un gruppo che fará una visita ad una cantina o si siederá attorno ad un tavolino a degustare vino. Si tratta di qualcosa di riscontrabile quanto mi é stato comunicato dai miei amici?[/spoiler]
4. POSSIBILITÁ LAVORATIVE INESISTENTI:[spoiler]mi é stato dichiarato spudoratamente che non esiste nessuna possibilitá lavorativa alla fine del corso di sommelier perché la Delegazione Provinciale e l’Associazione Italiana Sommeliers a livello nazionale sono totalmente sconnesse e non in contatto con i maggiori interlocutori lavorativi del mondo del vino come per esempio: ristoranti, hotels, vigne private, cantine sociali, agriturismi, ecc. Perció fare il corso di sommelier viene a categorizzarsi come un’attivitá dedicata a coltivare una passione od a mantenere vivo un proprio hobby, fatto che dá molto da pensare, dato che se una persona vuole mantenere una passione lo puó fare come autodidatta a casa sua e lo puó fare spendendo molto meno di quanto viene chiesto per i 3 livelli del corso di sommelier. Quanto dichiarato dai miei amici é vero o falso?[/spoiler]
In conclusione, caro delegato che cosa mi suggerisci:
• iniziare il mio percorso formativo come sommelier dato che tuttoció che mi é stato evidenziato non risponde totalmente alla veritá
• o mi consigli vivamente di rimanere fuori da questo ambiente viziato e malsano come mi hanno detto i miei amici
Sperando di aver fatto cosa buona e giusta nell’averti manifestato tutti i miei dubbi e le mie perplessitá, rimango in attesa di una tua pronta risposta.
Un caro saluto.
@Francesca
Qui non c'è nessun delegato. Sono un socio. Bastava informarsi e scrivere ai delegati, i cui recapiti sono pubblici sul sito AIS. Se mi hai scambiato per delegato per "sentito dire", sottolineo che è valido come gli altri "sentito dire" che seguono.
1. I libri di testo necessari aggiornati vengono forniti col corso. Non sono da consultare in una sede, sono tuoi e basta. I corsi si tengono presso Hotel a prezzo molto basso, necessario solo a coprire le spese e poco più. Se vuoi possono comprarsi una sede e fare i corsi lì spendendo molto di più, ma i livelli a 1000-1500 euro invece di 500-600 euro dopo li paghi TU, non io. :-)
Segreto dal mondo reale: quando fai un corso di fumetti, in scuole importanti come quelle di Milano ecc., i manuali di fumetto e i fumetti stessi te li compri... idem con praticamente tutte le attività. Fare un corso non vuol dire che ci sia una sede con libri gratis. Che poi non siamo nel 1950: se uno non è un gonzo sa bene che ben di Dio di manuali di enologia, enogastronomia e monografie sui vini ci sono su internet GRATIS piratate, assieme a siti articolati e completi.
2. Quando avrai trovato la Fantomatica Laurea in Champagne dimmelo. Se trovi anche la Laurea Magistrale in Vini Passiti dimmelo. :-)
Ti rendi conto della bizzarria della domanda? Le primissime 2-3 lezioni sono tenute da un enologo laureato, perché sono di basi minime di ENOLOGIA. Dopo sono argomenti monografici ed è raro che esista una laurea collegata... si ha il Veterinario che lavora nei controlli sui macelli quando fai al secondo livello le "carni", il professore dell'alberghiero per il "pesce" che è specializzato in falsificazioni alimentari ecc. ma sono solo poche!
Ma per lo Champagne, per dire, ci si deve accontentare, nel nostro caso, di uno dei massimi esperti italiani del settore, il medico Guido Invernizzi (la laurea c'è, ma è in medicina...) che regolarmente tiene conferenze di alto livello in Gran Bretagna e Francia.
3. Tutti gli eventi per gli associati sono pubblici e descritti sui siti dell'associazione con molti mesi di anticipo. La quota includeva il manualone Bibenda e gli sconti, come detto, oltre all'accesso per soli iscritti. Qui però uno deve saper usare il cervello: se uno sa che parteciperà poco, è OVVIO che non gli conviene! Se uno invece vive per il vino si fa due conti e facilmente scoprirà di essere avvantaggiato dalla cosa.
Io mi sono fatto due conti al secondo anno e NON rinnoverò per il 2015. Ma mica mi stupisco: ho visto l'andazzo nel 2013, speravo di frequentare di più nel 2014 verso Lecco, Brescia e Milano, ma proprio non ho tempo.
4. Può essere. A noi hanno detto che le offerte erano praticamente solo di GDO, ed erano varie. Anche per via della politica che sta tenendo Esselunga. Ovviamente penso che siano regionali: se uno sta in Trentino pensando che lo chiameranno per un lavoro in Esselunga in Sicilia, forse ha fatto male i conti...
Per il resto è noto a tutti che il corso è rivolto prima di tutto ad appassionati puri, spesso pensionati o con lavori solidi, poi a chi viene mandato dalla propria azienda lì (eravamo pieni nel nostro corso di ragazzi inviati da enoteche e locali vari) e solo in ultimo da chi in fondo vorrebbe cercare lavoro senza essere già nel giro delle enoteche come tuttofare/commesso.
E infatti, due più due, è per quello che la GDO ne cerca sempre: i sommelier disponibili a farsi assumere mica sono poi così tanti...
Se ti hanno riferito che nella tua sede la AIS fa schifo, ti consiglio di NON frequentare. Io l'ho fatto a Bergamo ed era fantastico, con eccellenti professori. Ogni sede fa caso a sé. Tant'è che all'esame il tizio ligure venuto a fare gli orali, quindi da AIS Liguria, era un coglione marcio che nemmeno sapeva cosa c'era scritto sul libro e su due domande in cui ho detto quanto scritto, nel modo in cui era scritto, ha rotto le palle dicendo che era sbagliato. Ovviamente non lo era.
Per il resto... sì, AIS a livello nazionale (il mondo romano che domina) è un troiaio bizantino pieno di leccate di culo ai produttori famosi e giochi politici da mentecatti. Un motivo in più per cui eviterò di rinnovare l'iscrizione anche io.
:-)
Ad avere avuto gente così al proprio corso, anche io avrei detto ad altri di evitare. Ma fortunatamente era solo l'esterno inviato per l'orale.