Oggi un articolo sul vino che è a metà tra sfogo e commento (positivo) di due articoli. Nulla di troppo tecnico e spero che la pensiate come me, che siano cose che danno fastidio anche a voi.
Primo articolo:
http://www.newyorker.com/culture/culture-desk/is-there-a-better-way-to-talk-about-wine
Secondo articolo:
http://www.intravino.com/grande-notizia/certe-note-di-degustazione-hanno-ragionevolmente-rotto-le-scatole-il-problema-e-capire-quali/
Letti? Meglio prima leggerli, se no sembra che parlo di roba a caso. Comunque anche senza averli letti dovreste poter seguire lo stesso ciò che dirò.
Ci sono tre grossi problemi nel mondo del vino. Ok, ce ne sono molti altri, ma mi riferisco a questi legati alla critica e comunicazione del vino da parte degli esperti che scrivono per giornali o riviste:
Non c’è 4. Quattro perché il Quattro non è un problema.
Cito dall’articolo di Goode:
le note di degustazione sono per la maggior parte troppo elaborate, eccessivamente dettagliate. In quanto tali, intimidiscono le persone normali, che in qualche modo percepiscono di vivere un’esperienza “diminuita” poiché non riescono a percepire in un vino tutti i descrittori esotici descritti da un giornalista. Giornalisti e critici del vino sembrano sentire il bisogno di far sentire importanti e nobili le loro descrizioni usando termini esotici e ricercati. In realtà le persone faticano a trovare più di due odori in un miscuglio di laboratorio. Io penso che molti wine writers siano un bluff quando scrivono le loro note, oppure non riescono ad essere onesti con se stessi su ciò che stanno realmente vivendo.
E tutto questo ovviamente allontana dal mondo del vino.
Mettetevi nei panni di un bevitore normale: se ho pagato soldi buoni e non riesco nemmeno lontanamente a sentire quanto mi aspettavo, mi sento in parte truffato (dal giornalista) e in parte penso che il vino pregiato non faccia per me (e torno a comprare solo vini tra i 3 e gli 8 euro, quelli di cui i giornalisti non parlando). Oppure bluffo e faccio finta di sentirlo, per impressionare altre persone… che comunque verranno allontanate dal mondo del vino.
Teoricamente negli attuali corsi della AIS, perlomeno quando l’ho fatto io nel 2012-2013, si calcava moltissimo la mano sul fatto che non bisogna inventare, bisogna dire solo ciò che si sente davvero nel modo più semplice e facile da capire e che se uno sente più di 7-8 cose probabilmente sta barando o inventando sinonimi attorno alle stesse molecole olfattive. E comunque spesso 5 profumi bastano anche per descrivere un grande vino. Ne avevamo parlato nel mio articolone in cui spiegavo che, se fatta seriamente, la degustazione tecnica è ben più oggettiva che soggettiva.
Gli esperti coinvolti nei corsi AIS usavano termini molto semplici, anche descrivendo (in una serata dedicata solo agli champagne e in una solo a grandi rossi italiani degli anni ’80) prodotti di livello molto alto. D’altronde quei termini comunicati devono aiutare gli altri a capire, a riconoscere profumi a chi sente qualcosa ma non riesce a esprimerlo, e godersi così di più il vino “svelato”.
I termini usati devono essere utili alla cultura di riferimento verso cui li si comunicano. Se uno mi dice che il gewurztraminer profuma della molecola XY (una delle proposte del primo articolo linkato), la mia risposta da ascoltatore è “fottesegacazzodici”, ma se mi dici che profuma di litchi e magari precisi meglio ancora che intendi un fruttato che sta tra la pesca e la banana, lo capisco e magari l’idea mi piace e lo provo.
Se sono un marziano e non so cosa sia il litchi, forse è meglio dirmi che odora delle scoregge del leone palmato dei canali marziani (se la molecola XY è forte lì).
Famosi sono i casi di sommelier giapponesi che identificano con certe molecole cose diverse da noi, più idonee alla loro cultura: un sommelier con un profilo gusto-olfattivo solo europeo comunicherebbe male ai giapponesi, come un giapponese e basta comunicherebbe in modo meno efficace a noi usando paragoni incomprensibili.
Per esempio Kiyomi Yoshida, sommelier giapponese che lavora (lavorava?) all’Eat’s di Milano diceva:
Mettendo al naso un Pedro Ximenez sento il Gohandesuyo, il profumo di un’alga condita che si usa nella cucina giapponese, oppure in alcuni bianchi spesso sento il profumo dei fiori del Kinmokusei, una pianta che da noi è molto caratteristica.
Sapere se un dolcetto profuma di “confettura di fragole” o se un altro rosso di “pepe e tabacco” non è irrilevante per l’acquirente o per godersi meglio un prodotto, se raccontato tra amici. Dei descrittori terra-terra, facili, servono a guidare o chiarire l’esperienza. Ma che siano pochi e chiari. Anche nel mondo del tè l’indicazione dei profumi si usa e aiuta davvero molto a decidere cosa acquistare.
Su cosa dovrebbe basarsi per decidere se no, il povero cliente? Si arriva senza alcun paragone con profumi diversi alla barzelletta dei due vini, quello da 20 e quello da 40 euro? “Che differenza c’è?”, chiede il cliente in enoteca, perplesso. “Venti euro,” risponde il sommelier. Descrittori fantasiosi evitati alla radice in questo caso, ma per decidere cosa potrebbe piacere di più non è molto utile. No, dire solo “quello da 40 è meglio” non aiuta a scegliere. Se una recensione online aiuta a capire di che potrebbe odorare un vino, è meglio.
In più indicare bene i profumi contrasta in parte il problema dei punti. Il meccanismo dei punti è un ottimo meccanismo, ma il pubblico di gonzi coi soldi poi finisce a usarlo come unico strumento: ma non è detto che un vino da 90 punti sia meglio per te di uno da 85, se quello da 85 ha uno stile più idoneo ai tuoi gusti!
Io ho parlato in passato di vini a prezzo molto contenuto con punteggi modesti, addirittura solo 73-74, che ho consigliato per qualche motivo a chi apprezza certi profumi specifici.
A difesa della recensione di Suckling per Wine Spectator dell’Haut-Brion del 1989, citata da The Newyorker come se fosse chissà cosa, devo dire che non è particolarmente lunga né esagerata. Vero, nel 1992 aveva descritto quel vino in poche parole… troppo poche per capirci qualcosa… e ora in 7 frasi. Ma i descrittori usati non sono né strambissimi né troppo numerosi (solo tre):
Un vino seducente, fantastico, bellissimo, come sempre. Non riesco a smettere di pensare al profumo delicato di cioccolata al latte, cedro e tabacco dolce. Corpo pieno, eppure così elegante e setoso, che dura per minuti sul palato. Ogni cosa è bilanciata nelle giusta proporzione. Questo è un vino che durerà per sempre. Lo adoro. Uno dei miei grandi amori nel mondo del vino.
Comunque io preferisco Gamberetta il mondo del tè. Ho praticamente lasciato il vino, dopo averlo usato per ottenere le basi di sommelier dal 2012 al 2014, e ormai da dicembre 2014 sono tornato al solo studio e degustazione del tè, ma sfruttando tutto ciò che di “universale” il corso per sommelier mi ha insegnato.
Preferisco il tè perché la parte tecnica è più complessa e difficile del vino. Tutti i sentori sono ridotti per intensità a una frazione di quelli del vino per cui sentire qualcosa bene è davvero difficile… ed è sempre poca roba, non 15 cose! In più mi piace perché non ci sono marchi, balle ecc. Conta solo la qualità reale delle foglie infuse più o meno correttamente.
Alla fine nel vino sono le logiche di etichette, brand ecc. che uccidono l’entusiasmo dei “non iniziati”. L’aspettativa tradita di fronte a sensazioni che non si provano, che poi è un problema citato anche nell’articolo. Non è l’analisi in sé che, esclusi termini più bizzarri, ha basi oggettive, ma la minchiate di brand che si costruiscono attorno, anche da parte del produttore stesso (un po’ alla Apple).
I grandi produttori di lusso per primi alimentano le minchiate dei cosiddetti esperti perché questi a loro volta si sentono in dovere di esaltare e premiare prodotti che non sono poi migliori di altri con brand meno forti e ci sentono cose impossibili. Mica vogliono fare la figura di quelli che non capiscono nulla di vino, no?
Senza contare altre cose dannose come le mode, tipo quella per il sentore di peperoni che piace agli americani (e giù tutti a peggiorare i propri tagli bordolesi per ottenerlo) o altre troiate per fare “punti” nelle riviste di settore, supinamente accettate da troppi produttori.
Quando si comincia a dire cazzate è perché da qualche parte si è iniziato… la tolleranza zero va verso tutti, sia critici che aziende, non è spostando il problema che lo si risolve. Certo, poi la Krug e simili produttori di lusso avrebbero più difficoltà a campare coi loro prezzi gonfiati (alti apposta per costruire un clima esclusivo) in un mondo in cui i brand smettono di contare qualcosa e le cazzate stanno a zero. Che poi non sarebbe nemmeno male poter breve il Krug Grand Cuvée, il loro (fantastico) prodotto di base, a 30-40 euro invece di 140-180.
Una cazzata è una cazzata, chiunque la dica, che sia un giornalista americano o un produttore. Se si sposta il problema, quello prima o poi tornerà nel posto originario. E visto che le aziende non smetteranno di dire cazzate (possono al massimo iniziare a farlo di più, sostituendosi ai critici), perché il loro scopo non è seguire il metodo scientifico ma far soldi, allora i critici sparaballe (“sella di cavallo sudato”, aroma davvero descritto anni fa da un ‘esperto’) anche se dovessero sparire poi potrebbero prima o poi tornare. Il problema va annientato, non spostato.
Senza cazzate da nessuna parte, riportando il discorso solo su questioni tecniche, si potrebbe anche far capire perché una bottiglia di vino normale dovrebbe costare 10 euro e non 2 euro (e smettere di produrli i vinacci da 1-2 euro). Ma chi lo farebbe? sarebbe “esperto” per definizione nel farlo… il pericolo che diventi un contaballe o troppo tecnico, lontano dal pubblico c’è.
Senza consapevolezza, senza invogliare a capire che non è normale il vinaccio dai profumi piatti e indistinti, sarà sempre il vino a 1-3 euro a vincere perché per la massa di clienti sarà “tanto il vino è vino”… fino alla prossima eventuale fase ciclica di proibizioni dell’alcool come minaccia sociale, come vissute più volte pure dal caffè nel mondo islamico. 🙂
Nel tè questi problemi di brand non ci sono. A parte casi rari… come quei tre fantomatici cespugli di Da Hong Pao piantati secoli fa che i cinesi venerano e fanno presidiare dall’esercito e da cui tirano fuori foglie pagate più dei migliori millesimi Krug (circa 30mila dollari al kg, nel 2005, ma ho letto di aste a prezzi 10 volte superiori)… ma a poche decine di metri i nipoti di quei cespugli producono foglie buone identiche a prezzo accessibile.
La valutazione è quasi solo oggettiva e quasi priva di giudizio di merito (se non quando la qualità è proprio scadente, altrimenti non ci sono i voti in 100esimi da rivista!): si constata com’è foglia secca, foglia infusa e liquore, poi alla fine a chi va bene il profilo risultante “esca fuori la teiera” e se lo ciucci a volontà secondo il suo gusto. E nessuno viene giudicato, a quanto ho visto, se preferisce un gunpowder di qualità media da 5 euro a un Dea di Ferro di qualità suprema BIO a 60 euro. 🙂
Fine dell’articolo-sfogo.
Ah, già: questo non era il primo articolo sul tè dopo quello su Chiara Gamberetta sulla Dea di Ferro della Misericordia che mi aspettavo di fare, ma mi è parso una buona transizione dal vino al mondo dei tè e delle tisane! Presto nuovi articoli. 🙂
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Un esempio di come una nota di degustazione minimale aiuta, al di là di quella di un articolo: l'uso della retro etichetta "corretto".
Se uno non sa niente o ne sa poco, lo prende e vede che sta bene con piatti molto grassi, e quindi sa lavare bene la bocca dall'unto. Frizzantino, fruttato di lampone, leggermente speziato, e con una nota tannica "piacevole"... quindi un asprino leggero, magari un leggero finale un pochino amarognolo gradevole. Fatto.
Troppa fatica per un vino di fascia bassa, da 4 euro? Ma se non si comincia a fare così, come fa la linea Grandi Vigne Iper (quasi tutti prodotti tra 5 e 10 euro, con rari vini da 15-29 euro e più rari ancora vinelli da 3-4 euro) non si attira ed educa i clienti verso i vini decorosi invece che cercare solo lo "sfondamento" alcolico delle damigiane 5 litri x 4,90 euro e del tetrapack dai vini piatti, che sanno solo di "vinoso", senza aromi distinguibili veri!
Nei vini eravamo abituati all'idea che non va scritto nulla. Punto. Nessuna indicazione, niente di niente. Il che ha senso su vini che possono maturare e variare molto nel tempo, per cui magari di cosa saprò il tuo Barolo non sei troppo sicuro quando lo imbottigli rispetto a quando è pronto, sufficientemente ben sviluppato, 10 anni dopo. Ma la massa dei vini in supermercato sono di pronta bevuta, che senso ha non indicare le note perlomeno tipiche attuali, dell'uscita sul mercato, del vino?
No, non è grezzo o cafone scriverlo. È cretino e poco rispettoso dei clienti non farlo. Una tradizione da abbandonare, per lo meno su tanti prodotti indirizzati al vasto pubblico, non agli appassionati da enoteca!
Bell'articolo, imo un po' di nicchia però concordo. Ho letto volentieri quelli su come si degusta il vino, molto chiari entrambi.
Mi hai incuriosito sul thè anche se non ne bevo, attendo nuovi articoli! Ciao!
Un po' come con il Barolo in Piemonte: scavalchi il fiume, i vigneti sono gli stessi, il vino identico e lo compri a un 1/4 del valore.
Dipende sempre da caso a caso, comunque il vino è un ambito in cui i prezzi oscillano di più per il marchio che per motivi oggettivi.
C'è il grande Barolo famoso a prezzo altissimo... e il piccolo produttore che ne fa uno altrettanto grande ma non sa (o non vuole) vendersi meglio, non ha un grande nome rinomato, e fa 1/4 del prezzo.
Nell'ambito degli champagne il Dame Noire di Boulachin-Chaput, per citarne uno dei tanti, con neanche 30 euro alla bottiglia è un prodotto che compete per qualità a un pelo dai Krug Grande Cuvée da 150-180 euro, e si mangia e si ricaga senza fatica gli champagne di Mumm, Pommery, Moet & Chandon, Veuve Clicquot ecc. del suo stesso prezzo (o poco più, 30-38 euro) che si trovano perfino nei supermercati. :-)
Col tè, tolti appunti casi rari e di interesse più che altro aneddotico, certi meccanismi che consideriamo comuni e normali nel vino sono invece sconosciuti.