Negli ultimi anni in Italia c’è stato il boom dei microbirrifici e la cultura della birra in Italia, ancora lontana dal divenire profonda quanto meriterebbe, è letteralmente esplosa se pensiamo a quanto eravamo prima distanti dal mondo inglese, statunitense o tedesco. Termini fino a pochi anni fa ignoti come IPA o Bitter, oggi sono comuni tra gli amanti della birra, e Stout ha sostituito “birra nera” anche nel vocabolario di molti bevitori occasionali.
Vi capita mai di pensare alle birre che avete bevuto e a quando le avete conosciute la prima volta? Ne è passata di birra in questi anni e questi cambiamenti hanno accompagnato le nostre vite, anche solo vedendo apparire nei menù dei locali prodotti prima inesistenti. Prima di passare ai miei ricordi, la prossima settimana, facciamo un ripassino sugli ultimi anni di cultura birraria in Italia.
Intendo davvero che l’articolo amarcord sarà la prossima settimana: è già pronto e sto seguendo il consiglio di ricavare più articoli (ben tre, questa volta) invece di fare un singolo mappazzone di 7.500 parole! Duchino sta imparando: gli lanciate una birra??? ^^
Diffusione della cultura birraria: alla fine è tutta questione di leggi.
L’Italia, in ambito birra, è partita da una situazione simile a quella degli USA: entrambi eravamo privi di una cultura della birra, di una tradizione radicata (a differenza di Germania, Belgio o Inghilterra) e bevevamo solo le classiche bionde industriali (Pale Lager) e poco altro (qualche Weiss, qualche Bock, magari chiamandole bianche o rosse).
Le Pale Lager sono birre di corpo leggero, con poco sapore, poco dolci e poco amare (ma tendenti più al dolce), da bere freddissime per camuffare la pochezza e renderle più dissetanti possibili… birre simili all’acqua, perché l’acqua è la cosa più dissetante e più la birra si discosta dall’acqua e meno sarà beverina e facile. Torneremo su questa questione in futuro, capiterà di sicuro, credo.
Negli USA le cose cominciarono a cambiare nel 1976, con il primo birrificio nuovo, in cerca di sapori nuovi e di stili internazionali, che aprì la via anni dopo a tantissimi altri microbirrifici (poi magari divenuti giganteschi, come Sierra Nevada) che portarono al consumatore americano IPA, APA, Stout, Porter, Bitter, birre acide ecc.
Fondamentale il “movimento” dietro la birra e il coinvolgimento degli appassionati, che grazie ai cambiamenti di legge poterono dal 1978 iniziare a produrre birra in casa, prima illegale, e costruirono così una comunità di appassionati che producono e bevono.
In Italia tutto questo cominciò solo nel 1996, 20 anni dopo. E anche qui a fare la differenza furono le leggi: solo dal 26 ottobre 1995, con decreto legislativo, produrre birra in casa è diventato legale per uso personale (famigliari e ospiti) senza vendita. Con 20 anni di ritardo, le stesse cose iniziate negli USA cominciarono a muoversi anche da noi.
Nel 1996-1997 nacque la birra “artigianale” come movimento e nacquero i primi birrifici (una manciata). Nel 1996 la birreria Le Baladin divenne un brewpub (ovvero una birreria che produce e vende anche la propria birra), e nel1997 nacque Baladin come birrificio vero e proprio. Il 1996-1997 fu il cosiddetto biennio magico in cui nacquero in simultanea alcuni grandi nomi storici del movimento birrario italiano, come il Birrificio Italiano.
In entrambi i paesi erano le leggi che impedivano di produrre birra in casa a impedire anche il fiorire di un mercato in cui il rapporto diretto, lo sperimentare, il potersi appassionare e anni dopo magari fare il salto di qualità (come avviene spesso: da homebrewers a birrificio vero), sono fondamentali.
Sarebbe fiorita la fantascienza negli USA se delle leggi avessero impedito di scriverla ai privati e solo pochi colossi, dotati di licenze, avessero potuto scrivere e pubblicare, scegliendo però, in assenza di concorrenza, di scrivere tutti roba uguale? Probabilmente no.
Cosa sono le birre artigianali in Italia.
Come anticipato, il problema dell’Italia è che non ha una tradizione birraria. Questo significa che non abbiamo nel tempo selezionato luppoli e lieviti che rappresentano i “nostri” stili, anche perché non abbiamo stili di birre nostri (a parte una certa passione per l’uso delle castagne). La cultura alcolica italiana era quella del vino. Tutta la nostra tradizione birraria, dalla prima metà dell’Ottocento circa, è stata quella delle birre industriali: Pale Lager acquose, frizzanti, da bere freddissime, tutte molto simili tra loro.
Questo problema però porta con sé anche il nostro punto di forza.
Non siamo la Germania, che fa le birre in un certo modo e fa certi stili di birre e la gente ne beve moltissime, ne beve di ottime, ma sono quelle. Poco spazio per chi vuole diversificare: il pubblico ha deciso cosa è birra e ne può avere di molto valide. L’Italia, come gli USA, poteva scegliere… e abbiamo scelto di fare di tutto, come preferiamo. Birre acide simili ai Lambic di Bruxelles? Yeah. Stout e Porter in stile irlandese e inglese? Certo. Birre dove ci butti quel che ti pare (spezie, frutti ecc.) e basta che venga buona, come fanno i belgi? Decisamente!
Su due vie opposte possibili, la purezza della Germania oppure la totale libertà del Belgio, i birrifici italiani hanno scelto la seconda. Il pubblico italiano è abituato così a esplorare ogni sorta di birra quando affronta i prodotti dei nuovi birrifici. Fin troppe birre strane per il gusto dello strano!
C’è una ricerca dell’italianità altrove: non potendo affidarsi a luppoli con aromi tipici del nostro territorio (i luppoli selezionati sono stranieri, da noi manca un’adeguata filiera del luppolo dal genetista al venditore) o ai lieviti tipici dei nostri stili (non ci sono), alcuni birrifici cercano di usare prodotti delle nostre regioni per fare con la birra qualcosa di “locale”.
Mi viene in mente Ladeisi, ottima Saison aromatizzata alla mela rosa dei Monti Sibillini realizzata dal Birrificio Le Fate (di cui parleremo di sicuro in futuro). Ci sono anche le birre di Beltaine, birrificio che impiega castagne dell’appennino (per esempio l’affumicata con ginepro) tipici della zona in cui si trova, a Granaglione, nella provincia di Bologna a due passi dalla Toscana. Mi vengono in mente però anche le imbarazzanti Regionali di Moretti (di cui parlerò a tempo debito), che non significano niente.
Naturalmente negli ultimi anni c’è stata anche da noi la moda delle IPA e delle APA, per cui tantissimi birrifici hanno voluto proporre le loro… e c’è stata la moda delle Double/Imperial, per cui si sono sentiti in dovere di alzare un poco l’alcol e parecchio l’amaro fino a birre estreme come l’eccellente Objekt 010 di Canediguerra (10% alcol e 100 IBU: forte, molto amara e pericolosamente beverina se consideriamo l’alcol, pare un succo di pompelmo divenuto birra!).
A parte certi appiattimenti legati all’inseguimento di una moda dell’amaro (che io apprezzo molto), dovuta anche a una reazione dei nuovi appassionati contro il “dolce” delle birre industriali, i birrifici italiani comunque hanno continuato a proporre di tutto. Liberi di agire, con l’unico vincolo di fare birre buone.
Vi consiglio questo documentario, Brew IT – La birra artigianale in Italia, ormai un pochino “archeologico” essendo del 2012, ma vale la pena vederlo lo stessi visto che parla di storia… e quella non è cambiata:
In particolare mi ha colpito quello che dice Agostino Arioli del Birrificio Italiano (che fa davvero ottime birre, come la Amber Shock). È qualcosa che ho sentito dire spesso in altri ambiti, ma che in narrativa si finge di non sapere, con tutti i danni che ne conseguono (pochi lettori e pochi libri letti) quando a ignorare per primi queste cose sono i Grossi Editori che per decenni hanno indirizzato, e ancora indirizzano, il mercato:
In Italia non ci sono scuole né corsi seri per formare un birraio artigianale, quindi questo è un problema. Morale, la qualità delle birre artigianali è tutt’altro che garantita. Il cliente che si accosta alla birra artigianale per la prima volta e trova una birra fetente, se lo è giocato colui il quale gliela ha somministrata, ma me lo sono giocato anch’io. Se lo è giocato tutto il mercato potenziale della birra artigianale.
Proseguono nel discorso Giovanni Campari del mitico Birrificio del Ducato:
Adesso si prende un po’ tutto per buono, quello che è strano sembra buono. Se la bevuta è sgradevole, se uno capisce che c’è qualcosa che non va, allora rifuggirà completamente, in toto, il mondo della birra artigianale e tornerà tra le braccia della “tranquillità” della birra industriale.
… e Nicola Perra del Birrificio Barley:
Una legge alla quale non si deve sfuggire per stare in piedi in questo mercato ormai abbastanza difficile, è quella della qualità Ecco, questo secondo me è il parametro essenziale su cui non bisogna mai abbassare la guardia. E per fare questo bisogna essere sempre più professionale, sempre più competenti, sempre più attenti al proprio prodotto.
Forse gli editori italiani dovrebbero imparare qualcosa da questo atteggiamento dei microbirrifici, settore in crescita del +200% dal 2011 al 2015, mentre l’editoria crollava del -32,6%.
Mi ricollegherò a questo articolo tra due settimane con delle riflessioni ulteriori sul termine “artigianale”. Ho preferito separare gli argomenti, come spiegato all’inizio.
Un mondo in rapido cambiamento.
Se pensiamo al mondo delle birre “artigianali” di oggi, se ne trovano in tutti i locali bene organizzati e di mente un po’ aperta perché ormai i clienti si aspettano di poter scegliere qualcosa di diverso dalla Peroni bionda o dalla classica Weiss di Paulaner o di Franziskaner. Giusto in posti dimenticati dalla ragione in cui non c’è concorrenza o cultura della birra, in paesini come Porretta Terme, ancora nei ristoranti si trovano quasi solo birracce scrause (con un po’ di fortuna si arriva alla Mein Original di Schneider, stop). E dire che lì sono a un tiro di sputo da Beltaine, a Granaglione, e da Birra del Reno, a Castel di Casio! Birre che si trovano nei negozi specializzati del paesino, ma a quanto ho visto non nei ristoranti/bar.
Se avete visto il documentario segnalato prima, le nuove birre italiane si sono imposte nei ristoranti e nelle enoteche grazie alla sensibilità dei sommelier e degli appassionati del vino. La birra è incredibile quando si parla di abbinamenti col cibo, molto più flessibile e coerente con tanti piatti, senza i tanti problemi e approssimazioni che il vino comporta (quanti piatti italiani includono il temibile pomodoro cotto, che non si abbina coi vini?). Ne parleremo in futuro.
I bar e i pub sono proprio stati i luoghi di maggiore resistenza alle nuove birre italiane, abituati ai prodotti industriali da servire gelidi e senza schiuma (e al massimo la Guinness e poco altro), a parte i birrifici specializzati in cui comunque bisognava lottare contro i grossi marchi internazionali già percepiti come “birre alternative” dai clienti (pensate alla Chouffe, alla Leffe ecc.).
Pensate a come era difficile 10 anni fa trovare birre buone nei locali rispetto a oggi. E ora immaginate, o spingete la memoria indietro, a come doveva essere nel decennio precedente, agli albori del movimento birrario italiano. Io un po’ me lo ricordo come era la situazione tra 2001 e 2005, e nel piccolo della mia esperienza era una merda rispetto a oggi. Ma parleremo di ricordi nostalgici su come si stava peggio quando si stava peggio tra una settimana.
Visto il grafico qua sopra?
Proviene dal sito Microbirrifici.org ed è aggiornato con i dati fino a tutto il 2015. Sono i dati più freschi che ho potuto trovare. Tre note di spiegazione, per essere sicuri che capiate le distinzioni almeno a grandi linee:
- Micro: qualsiasi birrificio non enorme, include colossi come Baladin o Birrificio Italiano, ma non classici industriali come Moretti o Peroni.
- Brewfirm (e Beerfirm): aziende che vendono birre col proprio marchio, ma non hanno impianti propri e delegano la produzione ad altri birrifici, prendendo in affitto i macchinari per lavorare di persona con le proprie ricette (massimo impegno, Brew Firm veri a propri) o facendosi scrivere perfino la ricetta dal mastro birraio dell’impianto in affitto che la produrrà (zero impegno, giusto qualche indicazione di massima sullo stile, Beer Firm).
- Brewpub: locali che producono birra e che praticano anche la mescita sul posto, spesso (sarà ancora così?) senza vendere ad altri locali la propria birra particolare.
Prendiamo un anno d’esempio, il 2007, in cui nacque Gamberi Fantasy. Un anno che è una pietra miliare della discussione online sul Fantasy in Italia, con decine di blog a imitazione negli anni successivi e un sacco di persone che hanno cambiato il proprio modo di vedere le discussioni online sul fantastico, adottando standard minimi decenti.
Nel 2007 c’erano circa 100 microbirrifici e 100 brewpub, l’anno del pareggio, mentre i beer firm e i brew firm erano praticamente zero. Nell’ultimo anno in cui ancora Gamberetta stava mandando avanti il blog, nel 2011, erano stati superati i 250 microbirrifici, i 120 brewpub e c’erano circa 20 brew/beer firm. Altri quattro anni dopo, nel primo anno in cui Gamberetta non pubblicò alcun articolo sul blog, nel 2015, i microbirrifici erano diventati circa 530, i brewpub 150 e i beer/brew firm hanno scavalcato i pub con 280 presenze.
Se penso che prima del 2007 c’erano più brewpub che microbirrifici normali, faccio fatica a crederci. Immaginare che nel 2001, quando bevevo solo qualche rara Guinness e Tennet’s Super, c’erano solo una ventina di microbirrifici…
Nel rapporto 2015 ALTIS-UnionBirrai viene fatto notare che il mercato delle birre artigianali è passato dal 1,1% della produzione in ettolitri del 2011 al 3,3% del 2015. Sono aumentati i birrifici ed è anche aumentata la loro produzione media individuale (algebrica? mediana?), passata da 450 a 622 ettolitri. I prezzi medi delle birre “artigianali” sono molto più alti di quelli delle Pale Lager industriali che ancora dominano il mercato, per cui la quota di fatturato mosso è ben superiore al 3,3% di volume venduto.
Se pensiamo che mentre il consumo della birra in Italia ha segnato un +6% nel 2015, le vendite delle classiche birre industriali sono scese, e se fate la spesa regolarmente nei supermercati, dovrebbe esservi suonato un campanellino in testa…
Esatto, la saga dei luppoli Poretti, che proprio nel 2015, per Expo (in cui Poretti era la birra italiana ufficiale), ha proposto le tre birre denominate 9 Luppoli e le due 10 Luppoli. Giusto per promemoria: i luppoli non indicano quanti luppoli davvero siano stati usati, è solo un nome inventato da Poretti. Non è che nella Bock Chiara ne mettono davvero 5 o nella Bock Rossa ne ficcano 6. Potevano chiamarle 5 e 6 Calzini, tanto valeva.
Poretti perlomeno ha avuto l’accortezza di chiamare con nomi tecnici, riconoscibili e internazionali le proprie birre (Witbier, Porter, India Pale Ale, Saison, Brown Ale, Pale Ale, Blanche) e perfino indicare in modo limpido i tipi di luppoli impiegati (Saaz, Golding, Sorachi Ace, Cascade ecc.). Un approccio rispettoso dei clienti e che li EDUCA introducendoli a quel linguaggio internazionale necessario per capire, partendo dal prodotto Poretti facilmente acquistabile nei supermercati, i propri gusti “stilistici” per indirizzarsi anche verso le birre dei birrifici più piccoli. Prima ai clienti non si diceva nulla dei luppoli e al massimo si parlava di Premium Lager, Strong Lager, Pils e Bock, stop.
Questo imitare le birre artigianali, adottando gli stili tradizionali coi loro nomi, da parte di un birrificio industriale è quello che gli statunitensi chiamano “crafty” (invece di “craft”, artigianale). Un inserirsi nel mercato prima ignorato, seguendo i microbirrifici.
Questo però significa anche fare un uso etico del proprio ruolo nel mercato. Altro che “crafty”, che suona spregiativo! Piantarla di parlare di doppio malto, di birra bianca (in che senso: Weiss o Blanche?), di rossa (Bitter, IPA, Bock o cosa?) e simili stronzate senza senso. Molto indietro, con scelte di marketing che puzzano di ‘900 e non di XXI secolo, ci sono i nuovi prodotti di Peroni (con il suo bel Doppio Malto sparato in bottiglia) o di Moretti (con le insensate regionali), ma parleremo di tutti quanti a tempo debito. Con qualche nota di degustazione, visto che io prima bevo e solo dopo parlo. E si capisce da quel che dico.
Spero che il nuovo argomento del blog, le birre, vi risulti gradito.
Anni fa, con i primi articoli sul vino, ho ricevuto parecchie richieste di cominciare a parlare di birre e ho sempre rifiutato perché non avevo la cultura teorica e pratica per dire qualcosa. Ecco, negli ultimi anni ho provveduto a procurarmela, in particolare con un bel lavoro intensivo e metodico negli ultimi sei mesi. ^_^
Rilassati. Non ti preoccupare. Fatti una birra.
— Charlie Papazian
Le birre aromatizzate alla frutta!
Qual’è il tuo pensiero a tale riguardo, o sommo Duca?
Al di là delle classiche birre acide alle ciliegie/amarene o simili, che a me non piacciono tantissimo (le bevo volentieri, ma non le cerco apposta), tra le altre birre alla frutta di possono trovare ottime sorprese. Il connubio tra IPA e frutta di cui parla l’articolo può dare ottimi risultati. Ho bevuto di recente la IPA al Mango di Hop Skin, birrificio di Curno, realizzata per il terzo anniversario dalla nascita: molto buona.
Senza considerare classici buonissimi come le coconut stout/porter. Ne ho bevuta solo una, a una serata di degustazioni alla birreria Dome di Bergamo, poco prima di Natale, ed era fantastica.