Ti è mai capitato di entrare in un locale in cui non sei mai stato e di ordinare una birra senza aver potuto guardare il menù o perlomeno gettare un occhio alle spine delle birre?
Se conosci un po’ il mondo delle birre magari chiederai qualcosa tipo “Ce l’avete una IPA?” (o quel che è il tuo stile preferito), sperando di trovarti in un posto decente in cui ci sia un minimo di varietà di scelta e in cui il personale sappia che le birre non si chiamano bionda, bianca e rossa (io ormai sono così depresso dai bar/ristoranti medi che chiedo direttamente “Che birre avete?”).
Se la risposta è uno sguardo smarrito seguito da “Abbiamo una rossa alla spina e una bionda, oppure abbiamo in bottiglia la Heineken e la Peroni” come succede in tanti bar, puoi ripiegare sul rispondere nel linguaggio del bar-medio usando i colori (sempre se non ti vuoi infognare a chiedere “E la rossa che avete che marca è?”, come faccio io), sperando che da loro la spina della rossa contenga una IPA o qualcosa di simile.
Se questo è il tuo caso, sei già un cliente sopra la media. La maggior parte delle persone si aspetta che “Vorrei una birra media” sia un ordine sensato, come se dire birra implichi in automatico una Pale Lager industriale, la classica “bionda” (anche se qui perlomeno i baristi sanno tradurlo e servire in risposta proprio il tipo di birra cercato), oppure potrebbe sfornare il sempre verde “Vorrei una doppio malto“.
Se conosci poco le birre sto per dirti qualcosa che ti stupirà: la birra “doppio malto” non esiste come tipologia e non significa niente di utile per capire che tipo di birra vuoi. Quando chiedi una birra doppio malto non stai dicendo niente di concreto, né sul corpo della birra né sull’alcol, non stai dando indicazioni nemmeno sul colore (che poi chissenefrega del colore) e non stai indicando che aromi ti aspetti. Non stai dicendo niente, ma lo stai facendo con molta convinzione.
Che cosa intende chi chiede una “doppio malto”?
Di solito il consumatore viene convinto, anche con l’aiuto delle tante birre con l’indicazione “doppio malto” nei supermercati, che una birra così indicata sia una birra più alcolica e più corposa perché, in effetti, le “doppio malto” sono di norma versioni meno indecenti rispetto alle Pale Lager base dei diversi produttore. Per esempio, la Doppio Malto di Peroni con l’etichetta nera è una birra passabile, tutto un altro mondo rispetto alla Peroni base.
Spesso questa credenza che le “doppio malto” siano più corpose e alcoliche (e stili come Doppelbock e Dubbel non aiutano a evitare la confusione) è accompagnata dall’idea che il nome derivi da un uso di malto doppio rispetto al consueto e porta alcuni dei clienti più fantasiosi a chiedere al barista una “triplo malto” o, con volo linguistico nel mondo dei whiskey, una “single malt” per intendere una Lager bionda normale. Sigh.
Di solito i i baristi, sentendosi chiedere queste “doppio malto” almeno una dozzina di volte al giorno, tengono una birra alla spina (magari una Bock corposa o una birra belga base) che rifilano ai clienti quando sparano la cazzata per intercettare il desiderio tipico che questi volevano esprimere.
Da dove viene la definizione “doppio malto” e cosa indica?
La definizione viene dalla legge del 16 agosto 1962, n. 1354, Disciplina igienica della produzione e del commercio della birra, di cui riporto l’estratto più significativo dall’articolo 2:
1. La denominazione «birra analcolica» è riservata al prodotto con grado Plato non inferiore a 3 e non superiore a 8 e con titolo alcolometrico volumico non superiore a 1,2%.
2. La denominazione «birra leggera» o «birra light» è riservata al prodotto con grado Plato non inferiore a 5 e non superiore a 10,5 e con titolo alcolometrico volumico superiore a 1,2% e non superiore a 3,5%.
3. La denominazione «birra» è riservata al prodotto con grado Plato superiore a 10,5% e con titolo alcolometrico volumico superiore a 3,5%; tale prodotto può essere denominato «birra speciale» se il grado Plato non è inferiore a 12,5 e «birra doppio malto» se il grado Plato non è inferiore a 14,5.
Come si può notare sono classificazioni puramente fiscali basate sui soli gradi Plato e la “doppio malto” in effetti ha grossomodo il doppio dei gradi Plato di una tipica “birra leggera”. La Alpen per esempio produce la 7 Plato da 3,5% alcol (meno di un euro al litro), che ha proprio poco meno della metà del grado zuccherino di una “doppio malto” minima. A rigore di legge però una birra “doppio malto” potrebbe avere anche solo 3,6% alcol e tutto il resto dello zucchero in forma non convertita, lasciato come dolcezza e corpo.
Cos’è un grado Plato?
Il grado Plato è la percentuale di zuccheri presenti nel mosto prima della fermentazione, per cui 12 gradi Plato equivalgono a 120 grammi di zuccheri per litro. Dopo la fermentazione tipicamente 3/4 di questi zuccheri, in una birra buona, tutta malto, diventano alcol e un quarto sono non fermentabili (maltodestrine) e rimangono a dare corpo e una nota dolce alla birra che andrà poi bilanciata con l’amaro proveniente dai luppoli.
Dobbiamo però anche considerare i succedanei del malto d’orzo o del frumento, che è possibile usare fino a queste quantità dichiarate nell’articolo 1 della legge vista prima:
4. Il malto di orzo o di frumento può essere sostituito con altri cereali, anche rotti o macinati o sotto forma di fiocchi, nonché con materie prime amidacee e zuccherine nella misura massima del 40% calcolato sull’estratto secco del mosto.
Trai succedanei più utilizzati ci sono il mais e il riso: costano meno dell’orzo, ma forniscono solo zuccheri fermentabili, privi di maltodestrine e privi degli enzimi necessari alla trasformazione efficiente in alcol degli zuccheri stessi da parte dei lieviti. Dico efficiente, al fine del gusto, perché questi enzimi permettono di fermentare la birra al meglio senza raggiungere temperature tali da far puzzare la birra (i classici 16-22 gradi delle birre ad alta fermentazione, che dai 24 in su producono reazioni sempre più veloci e puzzolenti), in più questi enzimi danno ulteriore corpo e favoriscono una schiuma di buona tenuta e cremosità.
Nell’ambito della produzione casalinga di birra di norma si ragiona con la Gravità del mosto, ovvero con la densità misurata in rapporto a quella di acqua molto povera di minerali (1,000), e non con i gradi Plato. Qui una facile tabella di conversione tra gradi Plato e Gravità.
Una tipica Stout può magari partire con una Gravità Originale (O.G.) di 1,050 e terminare la fermentazione con una Gravità Finale (F.G.) di 1,014 (più i malti sono scuri e meno fermentano: è normale avere un 35% invece di un 25-30% non fermentabile in una Stout), ovvero uno sviluppo di alcol pari al 4,8% a cui si aggiunge poi quello dovuto alla carbonazione – sviluppo della CO2, le bollicine – in bottiglia (tipicamente 5-6 gr/litro di zucchero, pari a 0,3-0,36% di alcol extra, e la nostra birra di prima dopo la maturazione in bottiglia avrà 5,1%).
L’alcol si misura considerando solo i millesimi delle due cifre, sottraendo la F.G. dalla O.G. e dividendo il tutto per 7,45.
Sapere che una “doppio malto” ha almeno 14,5 gradi Plato (O.G. 1,059) non ci dice granché. Potrebbe essere una birra con materia zuccherina pari a 175 grammi/litro (O.G. 1,072) di cui il 40% da mais che fermenterà per intero e un 60% da malto molto chiaro che fermenterà per 3/4 circa. Magari una birra con un alto livello di effervescenza, diciamo 9 gr/litro. Una birra bionda, molto secca, ovvero con molto alcol in rapporto al poco corpo. In questo caso: F.G. 1,011 e alcol effettivo svolto 8,6%, con tante bollicine da sembrare una Weiss tedesca e magari pochissimo luppolo (20 IBU, l’unità internazionale di amaro), con un sapore maltato di pane e leggerissimo erbaceo generico di luppolo, ma tutto sbilanciato verso il caramellatoso con note difettose di amaro alcolico e di vomiticchio, come talvolta accade alla Ceres (7,7%) o alla Tennent’s Super (9%).
La nostra “doppio malto” però potrebbe anche essere una Milk Stout, nera e dolce.
Malti molto scuri e una dose abbondante di lattosio, uno zucchero dal sapore dolce (molto più dolce delle maltodestrine) che non fermenta. Diciamo una O.G. di 1,054 e F.G. di 1,022, con 10 punti di gravità forniti dal lattosio. Carbonazione con 5 gr/litro e alcol finale 4,6%. L’amaro dei luppoli presenti a malapena contrasta la dolcezza, per non rendere la birra stucchevole, eppure il valore IBU è 40, il doppio della bionda di prima. Sentori di caffè e cioccolato dominano, soffusi nella dolcezza del lattosio.
E se la “doppio malto” invece fosse una American IPA di un colore rossiccio-ambrato?
In tal caso potrebbe avere una O.G. di 1,058 e una F.G. di 1,018, con una carbonazione di 5,5 gr/litro per un totale di alcol svolto di 5,7%. Però il luppolo scelto, diciamo tutto Cascade in questo caso, non avrà fornito solo un bell’amaro, 55 IBU, ma anche degli aromi ricchi di pompelmo, pesca ed erbaceo con note di resina, che scavalcheranno prepotentemente i sentori maltati di crosta di pane, lasciando al più note leggere di caramello.
Le tre birre si assomigliano forse in qualche modo?
Quella con più gradi Plato di tutte è la più alcolica, ma è anche la meno corposa ed è banale, priva di note provenienti da malti molto tostati o da luppoli aromatici, forse perfino con note difettose. La prima birraccia, col 40% di zuccheri dal mais, sarà così secca e spiacevolmente alcolica (in quanto sbilanciata per il poco corpo: io ho bevuto birre sopra i 17% alcol che erano pulitissime e bilanciatissime), da risultare pesante e poco bevibile, buona solo da ingurgitare tappandosi il naso per ubriacarsi in fretta.
La Milk Stout è la meno alcolica, ma è anche la più corposa e pur essendo più amara oggettivamente della prima (il doppio degli IBU) al palato apparirà più dolce. Una birra da sorseggiare per assaporarne ogni sfumatura di gusto, con calma, dopo cena,
La terza è più corposa della prima, ma meno della seconda, però avrà il sapore più intenso di tutte grazie a un abbondante uso di luppolo Cascade, magari anche in dry hopping (buttato nel fermentatore dopo la bollitura, per dare solo aromi e non amaro) e l’amaro sarà intenso e piacevole, rendendola molto più beverina di entrambe le altre. Il tipo di birra che uno scola in pochi minuti e poi se ne prende una seconda.
Non si assomigliano per niente queste tre birre, eppure sono tutte e tre oneste e corrette proposte che un barista ha il diritto di fare se un cliente chiede una “doppio malto”.
Pensaci la prossima volta che ne sentirai ordinare una. -_^
Quando si parla di birre, vino o di altri prodotti di uso ancora attuale, bisogna sempre stare attenti al linguaggio usato: termini che noi oggi diamo per scontati, cento o cinquecento anni fa potevano non esistere (nemmeno come concetti, al di là del termine in sé) o avere un significato molto diverso. Torneremo sulla questione in futuro.
Per ora interroghiamoci:
Questo significa che il tuo nano fantasy non potrebbe chiedere una Doppio Qualcosa? No, non significa questo: nel suo mondo potrebbero esistere birre che si chiamano “doppio qualcosa” come da noi sono nate le Doppelbock o esistono le Dubbel belghe.
Molti nomi di stili di birre che per noi oggi sono normali non facevano parte del linguaggio di una volta, o non esistevano proprio i concetti per definirli e ricadevano nelle “possibilità” delle normali birre, magari attribuite alle birre di una certa area: un po’ come oggi sotto il nome IPA si possono bere birre con sentori molto diversi, pur ricadendo nello stesso stile, ok?
Abbiamo però un nome storicamente attestato nel ‘500 inglese che può fare comodo per intendere le birre forti: birra doppia. Si trova nell’opera Enrico VI – Parte Seconda di William Shakespeare, di cui riporto l’originale e la traduzione italiana di Goffredo Raponi:
Here’s a pot of good double beer, neighbour: drink it and fear not your man
Qua, un boccale di buona birra forte: bevilo fino in fondo, vicinante, e non aver paura del tuo uomo.
Traduzione non proprio scorrevole o bella da vedere (“vicinante”? Davvero? Mi sarei aspettato la resa con l’informale “amico” coerentemente con l’invito a bere e la rassicurazione…), e quel birra forte per tradurre double beer comunica il senso in modo adeguato… anche se non è preciso, ma questo è il problema delle traduzioni e spesso si può far poco.
La birra doppia non è esattamente un sinonimo per “birra forte“, anche se è una birra più forte di quelle normali (anche dette single beer) e parecchio più forte delle “birre leggere” (small beer) dell’epoca di Shakespeare. La “birra doppia” è uno stile di birra, perché è definita dalla procedura con cui la si realizza.
Cito un estratto proveniente dal Cerevisiarii Comes or The New and True Art of Brewing del 1692, di cui però non ho trovato copie online (e quindi, per correttezza, preciso che la mia citazione proviene da una fonte non originale):
the first two worts, used in the place of liquor [water], to mash again on fresh malt
Ovvero si usavano i primi due mosti, quello ricavato dall’ammostamento del malto e quello aggiuntivo ottenuto dal risciacquo delle trebbie (quando sciacqui in pratica il malto già usato per ottenere un altro po’ di zuccheri), e con questo liquido invece di procedere a fare la birra si ammostava dell’altro malto fresco!
La birra doppia era birra ottenuto da malto ammostato nel mosto invece che in acqua, un po’ come il mitico caffè dello studente è fatto mettendo nella moka il caffè già fatto invece dell’acqua. E in questo suo essere “doppia nell’uso del malto”, la double beer inglese è una versione storicamente vicina all’idea sbagliata che taluni hanno sulle birre doppio malto: ovvero che usino una dose doppia di malto.
Quindi il tuo nano sbevazzone in un’ambientazzione medievaleggiante magari non chiederà mai una birra “doppio malto” perché sembrerebbe un italiano di fine XX secolo, ma non sarebbe poi così strano se bevesse una “birra doppia”.
E torneremo in futuro ancora a parlare di storia della birra, di linguaggio… e di che cosa potrebbero bere i nani fantasy. 🙂
Alla prossima!
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