Primo articolo dedicato esclusivamente al caffè, dopo i brevi ragionamenti sulla caffeina fatti parlando di tè economici. Come mai un articolo sul caffè? Perché bevo anche caffè e ho deciso di studiarlo, allo stesso modo in cui ho studiato il tè. Ci ho dedicato molto meno tempo in passato perché il caffè per me era (ed è) molto meno interessante del tè. Però anche il caffè va conosciuto: è la bevanda complementare e rivale del tè. Non potevo esimermi. E poi l’Italia è il “paese del caffè”: non fa male avere qualche concetto su una bevanda così importante e consumata.
Ho cercato di compensare il minor tempo dedicato in passato (che pure non era poco) con una sessione di degustazioni, letture, prove ecc. molto intensa negli ultimi tre mesi, arrivando perfino a comprare la mia prima macchina da espresso (un modello entry level, ne parleremo in futuro) solo per poter fare il caffè anche in quel modo… io che il caffè lo preferisco in infusione, lungo e aromatico! E per i saltuari caffè veloci fino al dicembre scorso mi affidavo alle capsule del Lavazza A Modo Mio. ^__^”
Acquisto di cui sono molto soddisfatto: è più scomoda delle capsule, ma la libertà di poter decidere io che caffè usare, magari (spesso) macinarlo sul momento, e godermi un caffè molto migliore di quelli offerti dal sistema A Modo Mio non ha prezzo. Parleremo di come fare il caffè a casa propria in tanti modi diversi, alcuni davvero molto economici e che permettono risultati fantastici, in un prossimo articolo. -_^
Come spunto per iniziare a parlare di caffè su Baionette Librarie ho scelto di sfruttare il famoso servizio di Report del 7 aprile 2014 che scatenò valanghe di polemiche (con urla strazianti dei napoletani) e aiutò a diffondere in Italia l’idea che i caffè in commercio nella grande distribuzione o impiegati nei bar, spesso, sono caffè tremendi.
Includo il video qui sotto. Nel caso dovesse sparire, potrete vederlo sul sito della RAI al link precedente. Ah, non è obbligatorio vedere il servizio: sono 50 minuti ed è fatto molto bene, ma i punti veramente interessanti li ho raccolti ritagliando i 10 minuti più significativi per fornire elementi di discussione al mio articolo. Sentitevi liberi di proseguire la lettura saltando il servizio qui sotto: la mancata visione non vi rovinerà la lettura. 🙂
Il video contiene alcune semplificazioni e inesattezze. Ne cito qui due gravi, nel caso qualcuno dovesse vederlo per intero:
- conservazione in frigo: lo vedremo in un futuro articolo, ma la bassa temperatura e gli sbalzi passando dal frigo alla preparazione possono danneggiare gli aromi del caffè;
- la Robusta non è il diavolo, anche se nel contesto del servizio si parlava sempre e solo di Robusta cattivi usati per riempire di caffeina a basso prezzo le miscele commerciali: non generalizziamo il problema lì mostrato accusando tutti i Robusta (spiego bene il tutto in questo articolo, più avanti).
Due parole preliminari sul caffè (e su Starbucks).
Prima di tutto diciamo di cosa parla il servizio, per chi avesse scelto di saltarlo e guardare solo i minuti selezionati da me nel corso dell’articolo. Report ha condotto un’indagine giornalistica sul mondo del caffè da bar italiano, l’espresso, osservando come viene fatto, che miscele vengono usate, come si decide che miscela usare in un bar, con quali chicchi vengono realizzate le miscele ecc. fino ad arrivare nel finale a parlare di macchine con capsule di plastica o alluminio. Lo scenario delineato nel 2014 da quel servizio era sconfortante.
L’Italia non è l’unico paese in cui si fa troppo spesso un pessimo caffè, ovviamente. Consiglio la lettura di The Coffeist Manifesto per avere una buona impressione di che problemi avessero anche negli USA con le tipiche caffetterie e perché perfino per gli amanti dei caffè di pregio, per i professionisti sia in Italia che fuori, Starbucks è tutto l’opposto del diavolo: la diffusione dei negozi della catena ha definito standard di qualità corretta sui caffè e ha aiutato a far conoscere i caffè monoorigine, diffondendo la cultura del caffè, in particolare dell’espresso italiano. Dove Starbucks prospera, prosperano anche i negozi specializzati in caffè che offrono il “di più” interessante per i veri appassionati di caffè.
I caffè bevuti dagli statunitensi sono ottenuti di solito col “drip”, lo sgocciolamento: percolazione simile a quella della caffettiera napoletana ma impiegando un filtro conico di carta. È un metodo diffuso anche in Giappone e di cui parleremo nel futuro post dedicato a come preparare il caffè. Su come anche i caffè lunghi all’americana fossero cattivi, vi lascio alle parole dell’autore di The Coffeist Manifesto:
Per anni anche io sono stato uno zombie del caffè. Amavo il caffè, ma lo vedevo prima di tutto e principalmente come una droga. Ero testardamente orgoglioso di berlo nero, per una sorta di machismo ignorante. Mi “godevo” il caffè bevendolo scuro e amaro solo per dimostrare che ero un vero uomo, visto che il sapore a tutti gli effetti lo trovavo tremendo. All’epoca non lo potevo sapere, ma stavo bevendo il prodotto di chicchi rancidi che erano stati bruciati fino a ridurli in cenere.
Ero un completo ignorante del mondo del caffè, ma questo non mi impediva di essere anche un totale snob. Ero convinto dell’idea che il caffè “buono” fosse amaro e scuro.
Qualche italiano può magari sorridere all’idea dei bibitoni a base di poco espresso (anche se poi magari nel mezzo litro di roba ci sono 2-4 espressi) e tanto latte, spezie, panna, zucchero, gelato, cacao e altre cose, bombe ipercaloriche che da sole valgono come un’intera colazione, ma nessun reale esperto potrà in buona fede dire che Starbucks o simili catene non hanno aiutato a diffondere la cultura del caffè, a insegnare che il caffè può essere qualcosa di piacevole e non un bibitone amaro e cattivo.
Guardate il Caramelized Honey Latte grande (16 once, mezzo litro): 47 grammi di carboidrati, 12 grammi di proteine, 12 grammi di grassi, totale 340 calorie con 150 mg di caffeina, come due espressi. Questo è una colazione vera e propria, liquefatta in un bicchierone di plastica da mezzo litro.
Starbucks ha anche aiutato la rinascita dei caffè come luoghi di ritrovo e di socialità in occidente: l’opposto del bevi e fuggi al banco italiano. Starbucks comunque, in segno di enorme rispetto per la cultura italiana del caffè, ha deciso di introdurre anche l’espresso al banco con l’apertura dei primi locali italiani.
In un mondo in cui l’Italia non faceva nulla per valorizzare l’espresso, anzi, troppo spesso agiva coscientemente per denigrarlo, è stata questa catena nata a Seattle a dare valore e grande notorietà all’espresso e a portare nel mondo l’eccellenza italiana della cultura del caffè… anche grazie ai bibitoni saporiti in cui l’espresso è solo una base.
Cito di nuovo The Coffeist Manifesto (per chi non sa cosa sia la terza onda del caffè che stiamo vivendo negli ultimi due decenni, rimando all’articolo eccellente su Caffè Espresso Italiano):
Gli Specialty Coffee [Nota: caffè monoorigine eccellenti, qui una spiegazione], altrimenti conosciuti come “terza onda” del caffè, hanno prosperato fin dalla diffusione di Starbucks grazie in gran parte all’educazione che Starbucks ha fornito al mondo. Per molte persone l’apertura di uno Starbucks nella propria città è stata l’introduzione a qualcosa di meglio del caffè già macinato, venduto in lattine, con cui erano cresciuti.
I veri esperti probabilmente non faranno nemmeno il “sorriso” citato prima: ridere di bevande, di espressioni culturali diverse nel proprio ambito ecc. non è un atteggiamento serio o professionale. Io non ridevo del tè quando mi occupavo di vino. Non ridevo del caffè quando mi occupavo del tè. E non rido oggi del tradizionale caffè etiope cotto alla turca in una pentola piena di spezie e zucchero, dove il caffè pur essendo la “base” è un ingrediente in mezzo a tanti altri… concetto non molto diverso quindi dalle bibite aromatizzate di Starbucks.
Non rido della birra, o del sakè. Non guardo dall’alto in basso (di cosa?) nemmeno le bibite frizzanti nei bottiglioni, se ben fatte. Anzi, addirittura ho apprezzato l’aromaticità di bevande a metà tra il caffè e la cola frizzante come Moka Instinct, un prodotto italiano il cui successo è iniziato sul mercato asiatico e solo dopo è arrivato da noi già forte di aver dimostrato in mercati “più aperti al cambiamento” il proprio valore. Ci sarebbe da farsi due domande su come mai certi prodotti italiani si trovino a dover partire prima all’estero e non da noi… ^_^
Che poi io preferisca bere alcune cose (tè e vino) e faccia a meno senza problemi di altre (bevande gassate o superalcolici), non ha a che fare col necessario rispetto professionale che bisogna portare per affrontare con serietà lo studio di certi argomenti. Una mente chiusa alla novità è chiusa anche alla conoscenza.
Se volete qualche esempio di pregiudizi e chiusura mentale, conditi con gretta ignoranza, vi rimando ai pochi ma significativi commenti di risposta all’articolo del Gambero Rosso che parlava in modo positivo dii Starbucks. ^_^
Cos’è un espresso e come si prepara?
Partiamo dalle basi: il caffè del bar, l’espresso, è molto diverso da quello fatto in casa con la Moka. Il tipico caffè fatto in casa dagli italiani è un’estrazione con percolazione e leggera pressione del vapore (Moka) oppure semplice percolazione sfruttando la gravità (caffettiera napoletana), mentre il caffè espresso è ottenuto tramite un getto d’acqua spinto con ben 9 bar di pressione attraverso uno strato compresso di caffè la cui resistenza deve rallentare l’acqua permettendole così di strappare con la forza olii e altre sostanze al macinato.
Il risultato sarà un caffè molto più sciropposo di quello fatto con la napoletana o con la Moka, e dotato di un ampio profilo aromatico. L’espresso, si dice, non è chiamato solo così perché “fatto sul momento” (significato originale: un caffè rapido, senza attese) ma perché è la massima espressione del caffè che solo con questo metodo si può esprimere in pieno, in ogni suo aspetto, inclusa la struttura.
Ci sono altre modalità di estrazione che possono ottenere eccellenti risultati dal punto di vista aromatico: in alcuni casi i caffè “lunghi” (presso-filtro alla francese, drip all’americana o AeroPress: tutti metodi ottimi a livello tecnico) che gli italiani disprezzano a priori, con certi caffè di alto pregio, possono anche essere la scelta migliore. Nessun altro metodo permette di valorizzare però anche il corpo del caffè, esaltandolo così nella totalità delle sue qualità di aromaticità, acidità, eleganza, persistenza e struttura, quanto l’espresso.
Cominciamo dal primo problema rilevato: caffè mal conservati e che quindi irrancidiscono, impiegati in macchinari luridi con acqua sporca e filtri lerci di polvere di caffè precedenti. Ecco spiegati facilmente i caffè di sapore orribile, anche quando magari la miscela è decente, serviti in tantissimi bar e ristoranti italiani. In più la cattiva pressatura della polvere nel filtro può portare ad avere un espresso “sottoestratto” (con crema flebile e sapore anacquato) oppure “sovraestratto” (sapore troppo amaro, crema troppo scura e con bottone bianco visibile sopra).
Bella quell’acqua, eh?
Ricordatevi il signore anziano che appare a 0:16 perché è un barista di esperienza decennale nello storico caffè Gambrinus e ci torneremo dopo. Sì, dovreste avere avuto un brivido lungo la schiena collegando ciò che ha detto con Gambrinus e con esperienza decennale.
Ricapitolando, cosa dovreste aspettarvi di veder fare dal macchinista che al bar vi serve un espresso al banco? Una semplice lista da tenere a mente:
- chicchi macinati sul momento, conservati in un contenitore pulito, che faccia capire che sono ancora “buoni”;
- spurgo della macchina prima di ogni espresso, basta anche solo un secondo se davvero lo si fa sempre (in realtà, vedremo in un articolo futuro, dimenticarsi ogni tanto di farlo non crea un problema così drammatico);
- pulizia del filtro in cui inserire il nuovo caffè, con un tovagliolo o con il pennello;
- quando dico che il macinato deve essere fatto sul momento, intendo davvero fatto sul momento: bastano pochi minuti a far evaporare buona parte delle sostanze del caffè che lo rendono cremoso, saporito ed elegante (viene comunque buono, ma sarà meno buono di quanto avrebbe potuto);
- pressatura con tamper tenendo ben dritto il braccio portafiltro, non usando il pressino incorporato nel macinacaffè perché c’è sempre rischio di pressare troppo poco e, soprattutto, di pressare storto (e il caffè uscirà sottoestratto, perché l’acqua sfrutterà la via di fuga nella polvere meno compressa).
- quarto di giro del tamper per distribuire meglio la polvere e pulire il pressino: girare quaranta volte su sé stesso il tamper non serve a nulla, se non a perdere tempo e a sembrare poco professionali;
- se tutto è fatto bene, la tazzina da 25 ml circa di caffè uscirà in 20-30 secondi (idealmente 1 ml al secondo) dopo i 2-5 secondi di pre-infusione del macchinario.
Non entro nel dettaglio su come valutare fin dalla crema se un espresso è sottoestratto o sovraestratto e altre cose, come le temperature ideali per Arabica e Robusta… parleremo di come si fa il caffè in un altro post, trattando diverse modalità di estrazione di questa bevanda. Ok?
Metto solo quattro cose, visto che sono spendibili facilmente per capire se l’espresso preso al bar è cattivo o no:
- rotea leggermente la tazzina per vedere se la crema rimane chiusa (bene) o se si apre (male) e per vedere se la tazzina rimane relativamente pulita o se la crema sembra insudiciarla di melma scura (cere) come un gabbiano finito nel petrolio;
- la crema deve durare alcuni minuti prima di sparire (5 minuti, mi pare), ma visto che avrai mescolato la crema amalgamandola all’espresso e lo avrai bevuto circa 4 minuti prima che il test termini, saperlo non ti aiuterà (però puoi controllare questo: quando muovi la crema col cucchiaino, questa deve richiudersi);
- ovviamente qualsiasi odore cattivo di terra, legno, gomma bruciata, straccio ammuffito o cose così è molto, molto negativo;
- se dopo averlo bevuto senti bisogno di un bicchierino d’acqua per pulirti la bocca dal sapore amaro, cattivo, o per contrastare una sensazione astringente, quell’espresso non era granché buono.
E ora guardiamo come un barista esperto, nel ruolo di macchinista, mostra il modo ideale di fare una tazzina di espresso. Trattandosi di un capo barista e docente AIBES, ci si aspetterebbe una preparazione da manuale come la vedo fare nel mio locale di fiducia, il Trex Ristofornocaffè di Bergamo, giusto? NO.
Bella roba.
Ho apprezzato molto l’imbarazzo per aver preso sottogamba la cosa, evitando procedure che, come dice lui, si insegnano essere importantissime. L’uso del pressino del macinatore è decisamente una pessima idea: lui magari può avere una mano così ferma e precisa da usarlo benissimo lo stesso (fingiamo sia così… ma a giudicare dall’immagine direi proprio di no), ma se uno non è bravissimo è un suicidio. Come si fa a spacciarlo per un espresso fatto secondo la procedura ideale?
Geniale anche l’idea che l’erogazione totale duri 30-33 secondi dopo la pre-infusione… e poi vediamo che ferma l’uscita dopo 22 secondi (un tempo normale). Manco ricordarsi a memoria la regola del 1 ml al secondo? Notate che non ci sono tagli, si vede tutto in sequenza, addirittura c’è un fermo immagine di circa un secondo per sottolineare l’uscita singhiozzante del caffè invece che fluida.
Arrampicata sugli specchi francamente imbarazzante riguardo il filtro sporco di caffè vecchio, già estratto e ora cotto dall’acqua precedente: pulire o meno non modifica la qualità del caffè, è SOGGETTIVO. Come fa qualcosa appartenente al mondo naturale a essere soggettivo? Cioè facendo le stesse identiche cose se uno crede che verrà male allora viene cattivo, ma se crede verrà bene allora verrà buono? La mente del barista cambia la realtà?
Nemmeno l’intelligenza di dire, come poi effettivamente è (lo vedremo nel post futuro): “Sì, è sempre meglio pulire, ma se il caffè è molto buono e tutto il resto si fa giusto, può comunque venirne fuori un espresso molto buono anche se uno si scorda di pulire come è appena capitato a me.” Che ci voleva? Queste cose le so perfino io, che non sono barista né docente di baristi… peccato che nel caso di quel docente AIBES, visto che sbaglia praticamente tutto, c’era poco a cui appellarsi…
Immagino nessuno ormai si stupisca troppo nel vedere così tanti baristi e camerieri, perfino in un locale come il Greco a Roma, non conoscere la miscela servita. Noi, il paese del caffè. Noi, che abbiamo la cultura e deridiamo gli ‘Mmericani che bevono le brodaglie. Noi!
Ci vogliono pochi minuti su internet per informarsi, anche nel caso che il venditore si rifiuti di dichiarare al bar il contenuto della miscela. Alcuni la dicono e altri no. Per esempio se usi una miscela da espresso di Passalacqua, che fa un buon caffè napoletano come Cremador o Mehari, lo dovresti sapere che mal che vada, nel caso peggiore, solo un 30% è di Robusta e il resto è Arabica. Se servi l’espresso Pellini n.82 Vivace e non sai cosa contiene, basta che guardi sul web per scoprire informazioni non ufficiali che indicano un 20% di Robusta e un 80% di Arabica. Basta dire al cliente che non sei sicuro perché il produttore non lo dice sul prodotto, ma hai letto che è questa la composizione.
Dov’è la passione per il proprio lavoro se non ci si informa nemmeno? Che immagine si dà al cliente del proprio lavoro e dell’orgoglio che ci si mette? Non basta essere automi del lavoro: un barista è un venditore e deve saperti vendere “l’esperienza” caffè (o tè o vino o cocktail) che dipende anche da quanto entusiasmo sa mostrare. Se per il barman quello che serve è più di un noioso lavoro, sarà qualcosa di più anche per il cliente… che tornerà ancora.
Il sapore è in gran parte nella testa di chi mangia/beve, non nel cibo: se si migliora l’umore del cliente, se si cambia l’aspettativa da “scolo roba” a “degusto un prodotto di pregio”, si eleverà anche il piacere del mangiare/bere. Si creeranno così memorie positive che legano esperienze piacevoli al locale in cui sono avvenute. Vale anche l’opposto: dare una brutta impressione renderà peggiore anche il sapore del cibo.
Perla di saggezza di Pellegrino Artusi:
Molta gente mangia più con la fantasia che col palato e però guardatevi sempre dal nominare, almeno finché non siano già mangiati e digeriti, que’ cibi che sono in generale tenuti a vile per la sola ragione che costano poco o racchiudono in sé un’idea che può destar ripugnanza; ma che poi, ben cucinati o in qualche maniera manipolati, riescono buoni e gustosi.
Caffè, rifornimenti e macchinari: storia vecchia che ci dà lo spunto per parlare a grandi linee della diffusione dell’espresso in Italia e del perché abbiamo bar ovunque. Concetti che ci faranno comodo dopo, quando parleremo di Robusta e di caffè napoletano. Come è nata la diffusione di massa dei bar in Italia?
La parola bar al posto di “caffè” aveva cominciato a diffondersi in Italia dopo la Prima Guerra Mondiale, e faceva riferimento alla “sbarra” che nelle osterie e bettole inglesi separava l’angolo di vendita degli alcolici dal resto del locale. I bar all’italiana, dove si consumano panini, pizzette, si fa colazione, all’estero sono di norma chiamati café (o caffè) come li chiamavamo noi una volta. I bar negli USA o nel Regno Unito sono posti specializzati nella vendita di alcolici (negli USA si distingue anche tra beer bars e liquor bars, per esempio), e sono sinonimo di taverna, saloon o pub (nel Regno Unito di norma si chiamano pub).
Ma quando è accaduto che il bar italiano cambiasse genere e da un locale tipo taverna, in cui sfondarsi col vino e tentare di dimostrare l’esistenza di Dio attirandone una reazione a forza di bestemmie, passasse a essere un posto relativamente sobrio, idoneo alle famiglie e a mangiare cornetti nella pausa di lavoro?
Secondo dopoguerra, boom economico. Sono gli anni ’50 e ’60, la gente ha dimenticato la guerra e finalmente ci sono più soldi e tanta voglia di spendere. Il ritmo della vita moderna sta diventando frenetico come non era mai stato prima: la natura calma e rurale dell’Italia, presente in fondo anche in città fino a pochi anni prima, è sostituita dalla fretta, dallo stress e da un mito (mal gestito) della produttività. E andrà sempre peggio.
Sempre meno persone fanno la colazione in casa come una volta, con relativa calma. I pasti sono sempre stati un momento di ritrovo e socialità importanti per le famiglie e dopo il pranzo anche la colazione stava cedendo il passo ai nuovi ritmi, divenendo così mero “mangiare in fretta”: i genitori devono correre per andare al lavoro, per accompagnare prima i figli a scuola, per fare un po’ di spesa ecc. Il minor bisogno di calorie legato ai nuovi lavori sedentari fa il successo dell’espresso al bar: bevuto al banco, in tutta fretta, con solo una (grossa, all’epoca) bustina di zucchero.
Senza entrare nel dettaglio dei possibili danni che una cattiva colazione causava, inclusi danni alla produttività, che lo stress (nemico delle facoltà cognitive) e la mancanza di giuste sostanze nutritive non aiutavano di sicuro, basti pensare che il nuovo stile di vita portava poi a dover fare una pausa a metà mattinata per prendere un espresso zuccherato e magari una brioche. Ancora zuccheri semplici e grassi. Non proprio una dieta salutare. Chi si riconosce in queste cattive abitudini, si bacchetti da solo sulle mani.
Negli anni ’70 si affermarono definitivamente la colazione al bar e la pausa caffè, i bar divennero (anche grazie all’espresso che sostituì le bevande alcoliche) luoghi più salutari e idonei alle famiglie. L’espresso era sempre più diffuso, ma allo stesso tempo soffriva: veniva bevuto in fretta, come un amaro medicinale per rimanere svegli. Era solo una droga necessaria, non un piacere in cui indulgere: un po’ come nel Seicento o Settecento, quando il parere diffuso era che il caffè avesse un sapore schifoso, ma era necessario per evitare alcolici e per alimentare la “razionalità” nei celebri caffè politici e scientifici europei. Era buono nel senso di utile e giusto, non di sapore. Newton e compagnia avrebbero apprezzato gli integratori in pasticche da 100-200 mg di caffeina…
Entreremo nel dettaglio sulla storia del caffè in un altro articolo, ma basti sapere che tra invenzione dei primi macchinari da espresso e diffusione della nuova bevanda passarono parecchi decenni. I prototipi delle prime macchine da espresso risalgono alla seconda metà del XIX secolo, ma producevano un caffè atroce, bruciato e schifoso. Solo nel 1906 arrivò la prima macchina adatta alla produzione e vendita, la prima macchina Pavoni: sfruttando vapore in alta pressione era pericolosa e il caffè prodotto risultava bruciato e pessimo. Però invece di essere prodotto con parecchi minuti di lavoro, per decozione alla turca, per percolazione o per infusione, era pronto in pochi secondi.
Bisogna però aspettare il 1935 per la prima macchina in cui non è vapore caldissimo a estrarre il caffè, ma acqua calda spinta da aria compressa. La prima macchina “moderna” fu la Illetta e il suo creatore Ferenc Illy, un ex-ufficiale ungherese fondatore della famosissima Illy (marchio di cui mi piace molto il caffè, divenuto famoso sotto il grande Ernesto Illy, figlio di Ferenc). Ci vorrà però il 1947 per vedere le prime macchine con pistone e molla: le classiche macchine a leva ancora diffuse e apprezzate, soprattutto a Napoli. Macchine solide, classiche e stupende. Ecco come mai l’espresso riuscì ad affermarsi solo così tardi, grazie all’avvento dei nuovi bar.
Ora ci stiamo per ricollegare all’ultimo video.
Negli anni ’70 e ’80, in pieno boom dei bar, sempre più giovani cercarono di procurarsi un lavoro aprendone uno. Peccato che servono soldi per aprire un bar, giusto? Sbagliato. I grandi torrefattori si lanciarono a finanziare la nascita di nuovi bar fornendo macchinari e mobilio in comodato d’uso gratuito, in cambio di contratti di approvvigionamento del caffè a prezzi molto più alti del valore effettivo del caffè fornito. Talvolta davano (e danno!) anche soldi in contanti in prestito, come spiegato da Report, per finanziare i locali: tanto, sul lungo periodo, sia il prestito che il costo dei macchinari sarebbero tornati indietro, ripuliti nella fattura gonfiata dal prezzo del caffè. Come avete visto né questo modo di riciclare soldi, imponendo contratti di fornitura molto pesanti, né il realizzare vere e proprie finanziarie alternative a quelle degli istituti di credito, piace molto alle forze dell’ordine. Forse non è illegale, ma ci si avvicina a sufficienza da puzzare (se no l’indagine non la facevano mica).
Il problema è che il caffè cattivo coi prezzi gonfiati andava a gonfiare il prezzo della tazzina, colpendo in parte anche i locali che non volevano contratti vincolanti e comodato d’uso, e costruiva ancora di più nel pubblico l’idea che il caffè fosse un amaro medicinale. I baristi non potevano farci nulla: quando uno ha metà delle attrezzature del bar che non sono di sua proprietà, cosa può dire se il caffè non è buono? Niente. Si attacca.
I produttori, forti del non dover competere sulla qualità del caffè, si misero a competere sulla capacità di infilare sempre più bar nelle proprie scuderie. Il mercato del caffè, come spiegato su Report, era diventato “un’altra cosa” e la vendita di chicchi di caffè solo un pretesto, per cui tanto valeva vendere i chicchi più economici possibili (spesso difettati).
Cosa è più economico della Robusta, magari sfruttando chicchi di infimo livello, pieni di difetti? Ecco che l’espresso passò da essere, come sarebbero dovuto essere, “massima espressione” del miglior caffè… a divenire il moderno espresso servito in troppi bar: fetente e amarissimo, da tracannare nero con una smorfia di disgusto (o sguardo impassibile da vero macho) oppure inondato di zucchero.
Ma che cos’è questa Robusta a cui abbiamo accennato già diverse volte? Parliamone.
Arabica e Robusta: che differenza c’è?
La specie Arabica e la specie Canephora (nota anche come Robusta) del genere Coffea, sono piante diverse con bisogni diversi. Entrambe crescono tra i tropici e l’equatore, perché hanno bisogno di tenere lontano il gelo e di avere tanta umidità, ed entrambe sono arbusti che possono crescere fino anche a 10 metri di altezza (ma si tengono di solito ad altezza uomo per facilitare la raccolta, un po’ come accade col tè). Esistono altre specie di caffè, alcune davvero molto promettenti, ma per il mercato attuale del caffè sono irrilevanti: Arabica e Robusta da sole occupano tutto il mercato. Le due varietà di Arabica più diffuse sono la Typica (quella originale dell’Africa) e la Bourbon (creata dai francesi nel ‘700, più produttiva della Typica), ma non ci occuperemo di varietà e cultivar in questo articolo.
La Robusta è chiamata così perché resiste molto meglio alle malattie, richiede meno cure e produce quindi di più e più in fretta. In particolare ha potuto soppiantare a partire dai primi anni del ‘900 l’Arabica nelle aree in cui i parassiti e i funghi, come la “ruggine del caffè”, avevano distrutto le coltivazioni. Se volete bere un caffè come se foste nel Seicento… o anche nell’Ottocento… o beh, in realtà fin quasi alla Seconda Guerra Mondiale, dovete andare sulla sola Arabica. La Robusta non era stata nemmeno scoperta prima del 1897, figurarsi averla diffusa!
L’Arabica cresce al meglio sopra i 1200 metri e fino ai 2500 circa, ha 44 cromosomi, è autogama (ogni pianta possiede sia organi maschili che femminili) e apprezza le temperatura tra 17 e 24 gradi. La Robusta ha 22 cromosomi, è allogama (ha bisogno di venire fecondata dal polline di un’altra pianta della stessa specie, molto in sintesi), si trova bene dal livello del mare agli 800 metri e preferisce una temperatura tra 24 e 30 gradi.
La Robusta ha scarsa acidità e quindi manca delle centinaia di aromaticità che si collegano all’acidità, presenti invece nell’Arabica. Un grande espresso ottenuto da una grande Arabica può avere oltre 1000 aromi rilevabili dai “nasi elettronici”, contro i 600 circa di un vino rosso di grande struttura.
Entrambe subiscono gravi danni se rimangono troppo tempo al freddo… ovvero sotto i 15 gradi. Se solo potessero sopportare una forte escursione termica, si ipotizza, potrebbero sviluppare profumi e sapori ancora più interessanti… esattamente come accade con le uve da spumante che grazie ai grandi sbalzi di temperatura nell’area dello Champagne ottengono acidità e aromi straordinari.
Dato che entrambe amano l’ombra permettono di fare piantagioni in cui al caffè si uniscono alberi capaci di fornire ombra. Possono essere uno o più varietà diverse di alberi da frutta, da legna, piante per uso medicinale ecc. Questo è molto positivo perché la differenziazione della produzione è vantaggiosa per i piccoli coltivatori (ovvero il 70% della produzione mondiale di caffè) e, in più, creare una “foresta” di piante fornisce un aiuto agli uccelli e alle altre specie animali il cui habitat naturale è minacciato.
Il continuo intervento umano non rende il posto valido come un vero habitat naturale, ma è comunque un grosso aiuto per tanti animali! Le piantagioni stanno diventando rifugi per la biodiversità. Vantaggi economici, produzione di qualità e sostenibilità ecologica per una volta si sposano perfettamente: i grandi e i medi produttori, il 30%, tendono invece a preferire le coltivazioni di solo caffè, esposte al sole…
Come sapere se state comprando un caffè coltivato all’ombra? Di solito riporta la certificazione “Rainforest Alliance Certified” o “Bird Friendly”. Per approfondire vi invito a leggere il saggio Culture, Agriculture, and Nature di Robert Rice contenuto nel libro Coffee a cura di Thurston, Morris e Steiman.
I chicchi delle due specie sono facilmente distinguibili: quelli di Arabica sono più allungati, con un solco a “esse”, mentre quelli della Robusta sono più tondeggiante, più piccoli, con un solco dritto. La differenza in caffeina è del doppio circa: 0,7-1,5% del peso del chicco per l’Arabica, 2-4% e perfino di più per la Robusta. Se leggete per esempio l’etichetta del Lavazza Oro (100% Arabica) vedrete indicato 1,3% di caffeina, mentre sul Lavazza Crema e Gusto (70% Robusta, 30% Arabica) la caffeina è indicata al 2%.
La Robusta è quindi poco aromatica, poco acida, spesso amara, ma dà struttura al caffè e fornisce una botta extra di caffeina. L’Arabica è molto più acida (questo è bene! L’acidità è in senso positivo, è freschezza), molto più aromatica, ha un sapore naturalmente dolce e piacevole, ma ha meno caffeina. Chiaro? In più la Robusta fornisce una sorta di “schiuma” che rinforza la crema dell’espresso e la rende più persistente (ma anche un espresso 100% Arabica, se ben fatto, può avere una bella cremina).
Come sottolineato anche in The Coffeist Manifesto, buona parte della produzione mondiale di Robusta finisce a inquinare i caffè istantanei. Non tutti, ci sono caffè istantanei anche 100% Arabica (di pessimo livello), ma molti sì. I caffè istantanei sono un mercato enorme e perfino in Italia, “patria della cultura del caffè perché sì che noi sappiamo berlo buono” (si è visto…), i supermercati ne sono invasi. Un’altra fetta non piccola di Robusta, come visto, finisce nelle miscele da espresso per il mercato italiano.
Detto questo, qualche numero su cui riflettere preso dal libro Dalla parte del caffè del 2012:
- produzione mondiale di caffè: 8 milioni di tonnellate;
- di cui: 75% Arabica, 25% Robusta;
- i chicchi di Robusta costano circa la metà degli Arabica;
- principale produttore di caffè è il Brasile: 80% Arabica, 20% Robusta;
- principale produttore di Robusta mondiale è il Vietnam: 3% Arabica, 97% Robusta.
E fin qui tutto ok, sono mere constatazioni che non ci lasciano né caldi né freddi. Ora aggiungiamo il punto finale, preso dal servizio di Report del 2014, e vediamo se si accende una lampadina:
- consumo italiano di caffè: 50% Arabica, 50% Robusta.
Ora fatevi la giusta domanda: come mai se la Robusta è molto più produttiva, molto più resistente, cresce a quote minori (e quindi ci sono molti più posti al mondo idonei a produrla) e costa la metà, fuori dall’Italia se ne usa così poca?
- Le grandi aziende sono generose e sono liete di pagare di più i contadini per dare loro una vita migliore: anche se i Robusta sono buonissimi, preferiscono pagare il doppio per gli Arabica.
- La Robusta fa schifo, per questo riescono a piazzarne così poca sul mercato: gli italiani fino a oggi sono stati ingozzati di caffè cattivi, convinti dai grandi marchi che fossero buoni.
Non vi dirò qual è l’ovvia risposta giusta, cercatela nel profondo del vostro cuore di italiani e quindi esperti di caffè a priori. Vi lascio però con le considerazioni di Manuel Terzi, torrefattore, capo barman AIBES, maestro dell’espresso, giudice nazionale SCAE, commissario all’International Coffee Tasting 2008 e sommelier AIS (basta come quantità di qualifiche per soddisfare il gusto italiano per le Auctoritas?):
La bevanda che si ottiene a partire dai suoi chicchi è però meno aromatica e pregiata rispetto a quella ottenuto attraverso la specie Arabica. In compenso, la Coffea “Robusta” aggiunge corpo e sciropposità alla bevanda, una caratteristica storicamente fatta passare come primaria per la valutazione qualitativa: per lungo tempo, infatti, è stato sostenuto che le caratteristiche distintive del migliore espresso dovessero essere cremosità e persistenza gustativa, senza nemmeno prendere in considerazione se quest’ultima fosse piacevole o sgradevole.
[…]
Trattandosi di una bevanda straordinariamente più sciropposa di tutte le altre preparazioni in commercio, i fabbricanti di macchine per espresso pubblicizzarono le loro attrezzature facendo leva su questa caratteristica.
[…]
La cremosità sembrò a molti la caratteristica essenziale e distintiva del caffè espresso, e come tale veniva spacciata: nessun’altra considerazione su qualità, difetti, ampiezza gusto-olfattiva, aromaticità, persistenza aveva la stessa importanza, e anche gli eventuali difetti – spesso presenti – non venivano minimamente presi in considerazione, approfittando del fatto che la conoscenza era scarsa, e cercando di mantenere in essere questo stato di cose [grassetto mio].
(Dalla parte del caffè)
La parte in grassetto tenetela a mente. La recuperiamo tra poco.
Diciamolo, un po’ di Robusta non uccide il caffè. Si può dare quel tocco di corpo in più per l’espresso all’italiana sfruttando un 10-15% o al massimo un 20% di Robusta, abbinati a un 80-90% di Arabica di buona struttura. Già con un 30% si sta esagerando, forse, anche se il caffè Passalacqua, che è considerato buono, arriva in alcune miscele a usarne così tanta.
Come vedrete tra poco questo “così tanto” fa sorridere quando sentirete quanto ce n’è nel Lavazza Crema e Gusto:
Gusto italiano. Qualità percepita.
Produrre immondizia, prodotti oggettivamente di cattiva qualità da materie prime oggettivamente di scarso livello (nel servizio di Report vengono mostrati alcuni sacchi di Robusta), e rifilarli al pubblico affermando che è proprio quello che vuole perché non sa che è possibile avere meglio…
… vi ricorda qualcosa? Tipo l’editoria e la bolla speculativa del Fantasy italiano di alcuni anni fa? In quel caso era andata male, ma il principio era quello: rifila merda alla gente, spera che se la bevano e se hai successo stai molto attento a non alzare la qualità perché fare fatica a competere su quella non vale proprio la pena. In tacito accordo tanti altri produttori faranno lo stesso, per evitare una pericolosa escalation della qualità e delle pretese del pubblico. ^_^
Gran parte della voglia di sfruttare il servizio di Report per parlare di caffè mi è venuta grazie a Marcello Arcangeli, il responsabile formazione Lavazza del video sopra. È un grande, lo adoro. Mi piace moltissimo perché sa coniugare gli interessi dell’azienda per cui lavora, Lavazza, con un’onestà totale.
Giudicando da ciò che dice il signor Arcangeli, io non posso accusarlo in alcun punto di stare mentendo: quel che dice è tutto vero, solo che il significato cambia in base al contesto perché se uno è ignorante, per esempio, sentire “non è acido” può suonare positivo (badate: lui non dice che lo sia né la perplessità che esprime col linguaggio del corpo lo sostiene) mentre a uno con un po’ di esperienza suona come una grossa critica.
Questo genere di onestà in editoria non si vede.
In editoria la bugia, spesso spudorata, come abbiamo visto parecchie volte in passato, è la norma. Sarà che in tanta editoria la situazione è così tragica che non c’è niente a cui appellarsi. Lavazza invece è una grande azienda, seria, competente… che sì, fa anche dei caffè di merda (ma fa anche dei caffè abbastanza buoni), però li fa sapendo cosa sta facendo e sapendo cosa vuole ottenere. Non come gli editori che hanno scommesso male sul fantatrash e poi è tutto esploso. Non avrete mica dimenticato cosa ha detto Terzi poco sopra, no? -_^
Ispirandomi al lavoro che fece Karl Popper traducendo in una lettera del 1970 a Claus Grossner un ampolloso e arzigogolato brano di Theodor Adorno e tramutandolo in concetti concreti, ho tradotto per voi il significato reale di ciò che Arcangeli ha detto:
Frase pronunciata | Significato reale |
---|---|
[La Robusta] non è che è indispensabile… è il gusto italiano, cioè, è la qualità percepita, cioè non è… il fatto di… | Gli italiani sono abituati a caffè di merda. |
No, guardi questo è buonissimo, cioè è buonissimo perché ritorniamo ancora un po’ a quello che dicevo prima, questo è un caffè molto cioccolatato. | Questo caffè sa di terra e agli italiani va bene così. |
Non è acido. | Manca di aromi e asciuga troppo la bocca. |
Questo è assolutamente l’amarezza naturale del caffè. | Questo caffè è di pessima qualità, per questo è così amaro. |
È più secco! | Asciuga troppo la bocca. |
È più tannico, è più secco, ma questo è dato proprio dalla corposità. | È astringente, asciuga troppo la bocca, e questo è colpa della gran quantità di Robusta di cattiva qualità usata per dargli corpo. |
È una caratteristica di questa miscela che tantissimi italiani scelgono ogni giorno. | Questa miscela fa schifo e tantissimi italiani se la bevono convinti che questo sia il corretto sapore di un caffè! |
Se si sa capire cosa ha (ripeto) detto in modo completamente onesto, la sua è una critica feroce alla miscela Lavazza Crema e Gusto e ai consumatori italiani. Non c’è molto altro da dire, quel che ha detto è “chiaro” per chi conosce l’argomento. Agli orecchi di un ignorante suona invece come una difesa del prodotto. ^_^
Una piccola curiosità prima di chiudere la parentesi Lavazza Crema e Gusto: guardate bene le tre foto qui sopra. Vedete che quella a sinistra, di un prodotto scaduto nel 2014, riporta la percentuale di Arabica e Robusta della miscela, proprio come le confezioni tenute in mano nel servizio di Report? E vedete che a al centro, su una confezione recente, non c’è? Mentre c’è a destra su una confezione per il mercato estero, dove sono sensibili riguardo la trasparenza dei prodotti.
Tant’è che nella pagina italiana del Crema e Gusto la percentuale non è indicata, ma in quella del sito per il mercato britannico sì. Coincidenze? Non prendiamoci in giro. ^-^
Il servizio di Report ha scatenato un putiferio e ha insegnato a moltissimi italiani che i Robusta sono, spesso, caffè atroci. Il problema è che ora alcuni produttori, come Lavazza, che prima dichiaravano con totale onestà la percentuale delle miscele, ora la nascondono a favore di una generica indicazione di presenza sia di Arabica che di Robusta. Un po’ come già avvenuto negli USA da circa 20 anni, anche in Italia si starà mica sviluppando, piano-piano e grazie anche a Report che ha tirato il sasso, un moto di disprezzo verso il caffè Robusta? Speriamo!
Chi di voi ha per qualche motivo sotto mano confezioni con scadenza precedente la fine del 2016, quindi realizzate nel 2014, dovrebbe poter verificare la cosa. Le confezioni nei supermercati oggi dovrebbero avere tutti scadenze tra seconda metà 2017 e inizio 2018.
Vorrei far notare anche il linguaggio per descrivere la miscela da espresso (non i pacchi doppi da Moka): visto che Report ha svelato a tanti italiani che “cioccolatato” è una parola truffaldina per dire che sa di terra (molto negativo), questa non appare sui pacchetti singoli di espresso e al suo posto ci sono “cacao amaro” e “legni pregiati” (giusto per poter dire che sì, sa di legno, ma legno buono!). ^_^
Il problema della comunicazione incompleta non riguarda solo Lavazza: le indicazioni sono assenti anche sulle miscele di Pellini (che non mi dispiacciono: ho provato la n.46 da espresso e la n.20 da Moka) e in tante altre. Però di Lavazza so per certo che prima del putiferio scatenato dal servizio, loro dicevano la percentuale e dopo l’hanno tolta… ma come, agli italiani non fa piacere sapere che la loro “qualità percepita”, il loro “gusto italiano”, è al 70% sapore di immondizia? ^_^
Vi rimando a due recensioni professionali, fatte da esperti che ne sanno davvero di caffè, dedicate al Lavazza Crema e Gusto, al Lavazza Qualità Rossa e al Pellini n.82. Io col Crema e Gusto sono un pelo meno negativo: per me è un 4,5 e non un 4. Ma siam lì, insomma. Torneremo su queste cose in un prossimo articolo.
Comprare la miscela da espresso AltroMercato (che trovo passabile: una sufficienza risicata) e leggerci, chiaro e grosso, che contiene un 40% di Robusta mi dà ora ancora più soddisfazione: un pacchetto che non ha paura di dire cosa contiene. Comprate anche voi questa miscela se volete qualcosa di meglio del Lavazza Crema e Gusto, ma idealmente su quello stile di “gusto italiano”, spendendo solo poco di più.
Ma c’è Robusta e Robusta…
Chiudiamo la discussione su miscele e Robusta chiarendo una cosa: pur con tutti i suoi limiti, la Robusta non fa schifo automaticamente. Viene usata di basso pregio per abbattere i prezzi, pagando Robusta che costano la metà degli Arabica tipici: chicchi in parte immaturi (che danno gusto astringente), guasti o spezzati, ammuffiti, raccolti con il metodo dello stripping dalle piante per abbattere la principale componente del costo dei chicchi di caffè, il lavoro per raccoglierlo.
Se considerate che basta che piova molto forte per stimolare la pianta a produrre nuovi fiori che poi diventano frutti (drupe, anche chiamate ciliegie), potete immaginare che le pianta sarà carica di ciliegie con un livello di maturazione molto differente e verranno raccolte dallo stripping senza discriminare.
Con lo stripping si prelevano tutte le ciliegie dalla pianta (il chicco è dentro un frutto rosso, simile a una ciliegia), senza badare a quali siano mature o sane. Lo scopo è di avere più chicchi possibili, sfruttando al massimo la produzione della pianta. Però per produrre caffè buoni, le ciliegie vanno scelte a mano una per una (picking), ma è enormemente più costoso e la sola raccolta così assorbe il 50% degli interi costi colturali. Una differenza simile avviene anche con il tè: la raccolta manuale scegliendo solo le foglie migliori, invece di potare tutta l’estremità del ramoscello, produce risultati di livello superiore.
Garantendo a dei Robusta una selezione di qualità alta, è possibile avere un Robusta di pregio? Sì. Esistono Robusta di pregio. Non possono aspirare alla complessità e al livello dei migliori Arabica, ma possono competere con dei buoni Arabica… e dare eccellenti risultati nell’espresso. Mi vengono in mente, perché li ho potuti provare, i Robusta monsonati dell’India oppure certi Robusta di Giava o della Tanzania. Magari miscelati come in questo DolceForte di Mokaflor che consiglio caldamente per avere il vero espresso napoletano sciropposo, amaro e dolce assieme, cremoso… o meglio l’espresso che i napoletani vorrebbero “a parole”, ma poi, troppo spesso, bevono schifezze bruciate. Se fatto bene, l’espresso in stile napoletano è buonissimo.
Ecco un bicchierino di espresso fatto a casa con la mia Saeco e del Robusta di Giava macinato sul momento:
Amaro e dolce assieme, forte nella caffeina e con un invitante profumo di caramello scuro (con solo una sensazione non sgradevole di legno). Devo dirlo, a me l’espresso piace sia leggero e aromatico in stile nordico (come Illy) che più semplice, forte e sciropposo alla napoletana. Forse in stile meridionale, ma fatto BENE, come appena visto, mi attira anche di più (ma questi sono solo gusti).
La tostatura dei chicchi è piuttosto chiara? Vero.
I Robusta sono naturalmente amari e visto che l’amaro forte fa schifo va tenuto sotto controllo. Una tostatura media, non scura (parleremo dei diversi livelli di tostatura in un prossimo articolo), e l’uso di acqua un 2-4 gradi meno calda di quella per gli Arabica, permette di cavarne il meglio. Controllo della temperatura che è possibile con l’espresso o con l’infusione in pressofiltro, ma che non è possibile con la Moka che tende infatti a dare un sapore più amaro e a bruciare un pochino il caffè. Se alla Moka abbinate il Crema e Gusto tostato scuro e col 70% Robusta di livello mediocre, ecco a voi spiegato come mai certo caffè casalingo fa correre in bagno come olio di ricino. ^_^
Come avrete notato questi Robusta costano 22 euro al kg circa… non sono certo i chicchi che riducono il prezzo del Lavazza Crema e Gusto a 11 euro, eh! I Robusta di alta qualità valgono quel che costano, che poi non è nemmeno tanto visto che gli Arabica di alta qualità costano sui 30 euro al kg (e quelli di notevole pregio il doppio, o anche molto di più). 😉
Qualcuno dirà guardando le foto: ma come, i chicchi dei Robusta non dovrebbero essere tondi e quelli di Arabica allungati? Arabica e Robusta sono solo due grandi categorie divise poi in diverse varietà (Typica, Bourbon ecc.) e, come detto prima, gli Arabica sono allungati e con taglio a S mentre i Robusta sono più tondeggianti e con taglio dritto. Come mai in questi Robusta di pregio si vedono forme miste? Perché esistono anche ibridi di Arabica e Robusta, come questi.
Sono ancora considerati Robusta, ma non sono i “soliti Robusta” di merda. 🙂
Il mito del caffè napoletano.
Arriviamo finalmente a Napoli. Prima di tutto ricordiamo che il servizio di Report non intendeva attaccare Napoli e che sono stati massacrati caffè in giro per tutta l’Italia (Firenze, Milano, Roma…), mostrando così che in generale, in tutta la nazione, c’è un grosso problema di professionalità e di qualità. In. Tutta. La. Nazione.
Perché lo sottolineo? Perché i napoletani a differenza degli altri l’hanno presa sul personale e hanno trasformato l’accusa generale contro tutti i bar italiani in un’accusa solo contro la “tradizione napoletana del caffè”. Dopo vedremo un po’ di reazioni.
Vediamo prima lo spezzone dal servizio di Report. Vi chiedo di fare attenzione e cercare DOVE viene detto che in generale il caffè a Napoli non è buono. Drizzate le orecchie e ditemi se lo sentite, è MOLTO importante.
Avete forse sentito qualche critica contro tutti i caffè fatti a Napoli o contro la cultura del caffè napoletana in generale? Oppure avete sentito una singola critica, espressa anche con l’imbarazzo di doversi scusare per il basso voto dicendo “ma io degusto tecnicamente, valuto quello che sento in bocca”? Opinione molto solida visto che noi stessi abbiamo potuto vedere nel filmato la pessima crema, debole e forse anche troppo scura, presente in quella tazzina.
Ha detto forse che tutti i caffè del Gambrinus fanno così schifo oppure, come in tutti gli altri locali, ha constatato che quell’espresso singolo era stato fatto male? Quello, di prova. Proprio come avviene degustando i vini, si giudica la bottiglia, non migliaia di bottiglie dello stesso tipo. Se poi era “sfortunata” amen, magari si ritenterà…
… ma mentre una bottiglia è chiusa e non sai com’è finché non la apri (e se è un rosso importante magari gli fai pure il passaggio nel decanter), l’espresso invece prima di servirlo lo vedi come lo hai fatto e lo senti se puzza. Lo sai cosa hai usato per farlo, lo sai se è caffè mal conservato o cattivo. E se lo servi lo fai sapendo che stai servendo un cattivo prodotto.
Non è paragonabile alla totale ignoranza prima dell’apertura di una bottiglia di vino chiusa. Non c’è alcuna giustificazione a servire un espresso cattivo: se è stato un errore momentaneo, lo BUTTI e lo rifai giusto. Se non lo butti significa che proporlo così ti sta bene, che è normale per te. Capita anche a me di fare un espresso male, soprattutto se è un tipo di caffè nuovo e ancora non so gestirlo bene, e me ne accorgo subito: guardo, annuso, nel dubbio assaggio per capire quanto è venuto male, e poi lo butto. Non è pensabile che un professionista non riconosca un cattivo espresso subito. È chiaro?
E infatti nemmeno Biagio Passalacqua era contento di certi caffè serviti a Napoli e di certe miscele e di certi bar. Lo avete sentito, nella seconda metà del filmato:
Diciamo che la tazzina di caffè che viene venduta abitualmente non è quella tazzina di caffè che veniva venduta, diciamo così, 10 anni fa. Professionisti nel campo del caffè che vendono caffè nei pubblici esercizi sono rimasti ben pochi.
Ecco: QUESTE se vogliamo erano critiche in generale contro la qualità dei caffè e contro la professionalità dei baristi a Napoli. Queste, non la circoscritta critica di Godina.
Chi era Biagio Passalacqua?
Senza esagerare, possiamo dire che per Napoli era il Re del Caffè: ottime miscele, esportate in tutta Europa, e perfino in Australia, Giappone e Stati Uniti. Nelle miscele da espresso Biagio Passalacqua vantava un MASSIMO del 30% di Robusta (alla faccia di chi dice che il caffè napoletano ha bisogno del 50% almeno) e a Napoli è famoso anche per la catena di bar “Mexico” (ora “Mekico”). Un grande imprenditore e un grande amante del caffè, perfino di quello decaffeinato, deceduto il 2 dicembre 2014 a 93 anni.
Fu anche grazie ai Passalacqua che Napoli ottenne il rispetto in tutta Italia per il caffè, quando Mario Soldati negli anni ’60 bevve al “Mexico” di piazza Dante un caffè così buono che sul giornale La Stampa di Torino lo definì il migliore d’Italia. Giusto per ricordare il mito che il nord ce l’avrebbe col caffè napoletano, eh…
E ricordiamo quanto visto in un video prima, ovvero che un marchio storico di Napoli come Salimbene (1933) si trova a vendere il caffè ormai solo all’estero, per colpa della pretese di soldi in regalo, accompagnati da caffè cattivi, dei bar napoletani. Non sono i settentrionali che hanno cacciato via Salimbene dai bar di Napoli.
Se la rabbia contro le critiche generalizzanti fosse autentica, i napoletani se la sarebbero presa prima di tutto con Passalacqua, poi con Report e infine con Godina in quanto degustatore coinvolto nel servizio. Giusto? Guardatevi questa serie di video e poi ne riparliamo. Lo so che sono vari minuti, ma meritano… unico effetto collaterale è che poi potrebbe “salirvi il leghismo” (quello pre-Salvini) verso certi napo-leoni della polemica sul caffè. ^__^
Notate nel primo video il celebre Maestro Giovanni Fummo, l’uomo dai 14 milioni di caffè serviti. Ve lo ricordate che nel primo spezzone che ho proposto era il tizio al macchinario a leva totalmente ignorante del problema dello spurgo? Le macchine a leva sono molto diffuse a Napoli e non è normale non sapere che oltre a scaldare l’acqua e la doccetta, buttare fuori l’acqua serve anche a pulire. Qui ci sono due baristi napoletani e la questione dell’acqua pulita viene spiegata.
Bernardo Iovene: Perché ha fatto uscire l’acqua adesso? Perché se no esce l’acqua sporca?
Giovanni Fummo: No, non esce l’acqua sporca, per riscaldare il beccuccio e il fondo del caffè, non per l’acqua sporca, quello è caffè.
Però voglio difendere i napoletani.
Sì, prima ho difeso lo stile dell’espresso napoletano e ora difendo anche i napoletani che insultano Godina. No, non li difendo “tutti”, ma solo quelli che non hanno idea della questione e vengono invitati a dare un’opinione su qualcosa che non è mai accaduto: viene loro detto che Godina ha insultato il caffè napoletano in generale, il che è falso e ridicolo, e loro lo prendono per vero e quindi, ovvia conseguenza, ne desumono che Godina è in malafede oppure è un ignorante. Non stanno quindi insultando il vero Godina, ma un finto-Godina creato come bersaglio per l’odio popolare da alcuni giornalisti in malafede.
Nessuna scusante per uno dei titolari del Gambrinus, Antonio Sergio, e per quelli che hanno insultato Godina pur conoscendo la questione, oppure che hanno detto che per una degustazione singola serve un “panel” di pubblico, serve un contraddittorio (sì, perché se un pirla prezzolato dal Gambrinus guarda la crema rancida, aperta, e dice che è una meraviglia, allora questa diventerebbe ben fatta, eh? ^_^), e poi hanno minacciano di portare Godina in tribunale per aver osato dare un parere negativo su una tazzina di espresso oggettivamente oscena…
Riguardo l’idea, lanciata dallo stesso Antonio Sergio per distrarre dall’argomento della questione (ovvero la qualità del caffè fatto), che Godina fosse lì in veste di schiavetto asservito della Illy per leccare il culo all’azienda triestina (lo avete visto farlo? io no), la cosa lascia il tempo che trovo per due motivi almeno:
- la qualità del caffè l’abbiamo vista, e non cambia quale che sia la città di origine di Godina (che però da anni vive a Firenze, non a Trieste, per cui al massimo mi preoccuperei di eventuali pareri troppo positivi verso l’ottima Mokaflor);
- Godina non ha avuto alcun problema, proprio pochi mesi prima di quel servizio, ad attaccare la Illy per un accordo ingiustificabile con Kimbo (che produce miscele merdose, come Lavazza o perfino peggio).
- Godina ha massacrato (voto 3 o 4,5) anche alcuni caffè famosi a Trieste, e pur essendoci una prevalenza (5 su 4) di caffè gustati buoni rispetto ai cattivi si è trattato comunque di sonore martellate con tanto di nome preciso del locale.
Chi volesse sostenere ancora intenti pro-Illy e razzisti in chiave anti-meridionale da parte del servizio di Report e di Godina, può gentilmente accettare un semplice fatto naturale: di essere un povero minchione asservito alla proprio minchionaggine. ^_^
Napoli lancia un messaggio chiaro al mondo: mangiatevi il fango e dite che è cioccolato, altrimenti vi facciamo un culo così. Fantastico. Temo che il mondo continuerà, come già fa, a fregarsene di certi atteggiamenti presenti a Napoli e a proseguire con la fenomenale evoluzione qualitativa portata avanti dalla terza onda negli ultimi anni. Se ai napoletani starà bene venir presi per il culo, a caro prezzo, da soggetti senza scrupoli, buon per loro e sia fatta la loro volontà. ^_^
Ma sono fiducioso che le cose miglioreranno perché dopo il servizio di Report e le accuse ulteriori di Ciro Mazza del Caffè Tico (altro storico marchio napoletano), il Corriere del Mezzogiorno due anni fa scriveva così:
Nei bar della bella Napoli, però, i consumatori di caffè sono divenuti sospettosi e sembrano essere li intenti chiedersi se stanno gustando una delizia o quella che in città è comunemente detta «ciofeca».
Spettacolare Massimiliano Rosati (quello con occhiali e pizzetto), responsabile commerciale del Gambrinus, che dice che si è informato su Godina e a lui risulta che non è mica tanto esperto. Peccato che Andrej Godina sia uno dei più importanti esperti italiani, riconosciuto e formato dalla più importante associazione internazionale di degustatori ed esperti di caffè (SCAE, versione europea della SCAA americana). Qui lo difendono dalla campagna diffamatoria i padroni della torrefazione Bazzara: definiscono Godina una persona di grande talento e grande rispetto per gli altri.
Una piccola lista di qualifiche di Godina, incompleta, per chi ama gli elenchi:
-
Perito merceologo esperto nel valutare il caffè verde importato.
-
Dottorato in Scienza, Tecnologia ed Economia nell’Industria del Caffè (Università di Trieste).
- Socio SCAE dal 2000 e Authorized SCAE Trainer (formatore autorizzato SCAE).
- Membro della commissione SCAE per l’aggiornamento dei parametri di valutazione sensoriali.
- Premio miglior Authorized SCAE Trainer al World of Coffee 2013.
- Premio miglior Authorized SCAE Trainer al World of Coffee 2014.
Signor Rosati, bastano come qualifiche? E su Passalacqua però non ha detto niente, signor Rosati. E non ha detto niente neppure il buon Antonio Sergio. Ma come, col bersaglio facile, contro il triestino che osa criticare, siete leoni e contro il Re del Caffè napoletano che tira calci nel culo a quelli come voi, siete cogl… un po’ meno eroici? ^__^
Ricordiamo che Massimiliano Rosati è lo stesso signore che nel primo video della playlist sopra ci ha donato una perla di saggezza. Lo trovate al minuto 2:24, di fronte a un tavolo con rovesciati sopra dei chicchi tostati molto scuri (e pure rotti), che nulla hanno a che spartire con i chicchi ideali di Robusta di alto pregio (magari monsonati indiani) a media tostatura ideali per creare un grande caffè in stile napoletano che bilanci dolce e amaro.
Rosati ha spiegato che la “peculiarità” del caffè napoletano sarebbe l’uso dei caffè lavati invece dei caffè naturali e che così il caffè è più forte e “sensoso” (ipotizzo sia una parola in napoletano) e che ai napoletani piace così. Lavaggio che non c’entra niente con Napoli, visto che i caffè lavati (acqua usata per separare le bucce dai chicchi) sono gran parte dei caffè di alta qualità al mondo. Anche se in Brasile si tende a fare quasi solo caffè naturali (bucce separate per essiccamento al sole) e tanti sono comunque ottimi.
Il lavaggio non ha nulla a che fare con l’intensità del caffè voluta dai napoletani, con la sua successiva tostatura o con la composizione della miscela. E questo signor Rosati, che nemmeno sa definire le caratteristiche realmente tipiche del caffè napoletano, si permette di accusare di scarsa competenza Godina? Mistero svelato: direi che può accusarlo proprio perché non sa di cosa parla. ^__^
La SCAE per calmare le grida dei napoletani ha dovuto ribadire l’ovvio in via ufficiale, ovvero che una degustazione, seppur basata su criteri oggettivi e verificabili, è in sé soggettiva e ogni degustatore si prende la propria singola responsabilità che non è quindi mai imputabile all’associazione stessa.
Ma va? Non è questo il fondamento stesso del concetto di degustazione, cosa “ignorata” da certi cosiddetti professionisti napoletani?
Le opinioni espresse dal Dott. Andrej Godina nella recente intervista apparsa sui media italiani sono strettamente personali e non rappresentative delle opinioni e dell’atteggiamento di SCAE nei confronti dei torrefattori, operatori di bar e baristi italiani
Visto che la SCAE confonde un po’ le acque facendo credere che Godina abbia espresso pareri generali, ricordiamoci la realtà che avete visto nel video: quello che ha detto cose brutte su operatori, torrefattori e baristi NON è stato Godina: è stato il Re del Caffè Biagio Passalacqua. Godina nel servizio per Report ha maltrattato solo singole tazzine di caffè in giro per l’Italia.
Come avrete visto nel penultimo video della playlist, Godina ha dovuto ribadire anche lui l’ovvio su cosa sia una degustazione e ha dovuto ripetere che la responsabilità di quanto detto è solo sua, non della SCAE.
A certi individui risulta difficile capire (o meglio: fingono di non capire) che un “panel” di esperti serve quando devi valutare la qualità buona o eccellente di un prodotto, non per constatare l’ovvietà che l’immondizia è immondizia. Concetto che sono sicuro Forrest Gump capirebbe senza problemi perché lui non è in malafede come certi individui.
Per esempio non basterebbe il solo Godina per dire con certezza che un certo caffè merita l’indicazione di Specialty Coffee perché supera gli 80/100 di punteggio: è meglio avere un gruppo di persone che valutano e poi si vede se nell’insieme il voto di 80 è ottenuto tra chi dice 78 e chi dice 84.
Basta invece un solo sommelier, anzi, un solo cliente comune, per dire che una bottiglia aperta al ristorante ha un odore atroce di tappo guasto (e se il cliente non sta mentendo, chiunque potrebbe verificare senza problemi la veridicità della puzza, come noi abbiamo visto la crema pessima nella tazzina servita al Gambrinus).
Penoso il drappello di triestini che vanno in pellegrinaggio a Napoli a bere il caffè al Gambrinus. Notare i grossi bicchieri d’acqua che, come saprete, si danno per far preparare la bocca a un caffè che da solo non saprà far salivare correttamente e non avrà la giusta struttura per imporsi (mica lo si dà solo a chi ha appena mangiato lì, lo si dà a tutti… il motivo quindi non è certo pulire dal sapore del cibo) oppure lo si usa per lavare la bocca dopo da un caffè che si sa avere un cattivo sapore. In ambo i casi, un grande caffè con la giusta acidità non ne ha bisogno. Notate il comitato che ha lasciato intonsi i bicchieri d’acqua prima di bere il caffè (il livello d’acqua è identico a quando li ha portati il cameriere), tenendoli quindi al più per berli dopo… quanta fiducia nella sua bontà! ^_^
Epico che quello che dà un bel 10 all’espresso del Gambrinus, precisi poi che lui di caffè non capisce molto. Segue un bel 10 al Tavernello rosso e un 3 allo Champagne Krug dato da Laqualunque con motivazione “perché sì”, magari? ^__^
Se volete qualche commento in più sul caffè napoletano e sul suo presunto mito, non sostenuto oggi dalle prove sul campo, come ribadito anche da Biagio Passalacqua, c’è questo articolo in cui Godina ha provato i caffè di diversi locali e ha raccolto considerazioni agghiaccianti.
Cos’è, doveva stare zitto solo perché il prodotto non è buono? Si può criticare solo se si dicono cose buone, ma è vietato dirne di cattive? Ragionamenti simili hanno ucciso l’editoria italiana. Chi ama il caffè lotta per la qualità, altrimenti non lo ama. Punto.
Visto che il tema della storia del caffè, inclusa la storia del caffè napoletano (e anche lo stile sciropposo del caffè napoletano), mi sta a cuore, ne parlerò in un futuro articolo apposito. Qui abbiamo superato già le 9000 parole (20-30 pagine in un libro) e non val la pena fare un calderone! Giusto una piccola suggestione: la storia del caffè a Napoli è molto recente, tanto da far sembrare antica la tradizione di Milano, e diverse peculiarità risalgono alla seconda metà del Novecento.
I caffè cattivi aiutano l’Italia?
Ricolleghiamoci ai discorsi fatti prima sui grandi produttori italiani che non fanno prodotti di qualità (perché il business è diventato altro, non si compete sulla bontà del caffè) e su come Starbucks portando la cultura del caffè “buono” e dell’espresso italiano nel mondo è stata fondamentale per la terza onda del caffè mondiale, e domandiamoci: ma se una parte significativa del caffè italiano esportato all’estero non è buono, meno valido di quelli venduti da Starbucks, questo può avere conseguenze di immagine per chi in Italia produce caffè di qualità?
Sottolineo una inesattezza: Howard Schultz venne a Milano nel 1983, e non negli anni ’90, e si innamorò del caffè italiano, ma solo nel 1987, quando comprò Starbucks assieme a una cordata di investitori, impresse la propria nuova visione e tramutò l’azienda in una catena mondiale: dai 17 punti vendita nel 1987 agli oltre 22.000 di oggi (un po’ di storia di Starbucks sul sito ufficiale).
E direi che con Report possiamo chiudere qui. Secondo Word ho superato le 10.500 parole. Nei prossimi articoli sul caffè parleremo di:
- modi per fare il caffè bene in casa (e dove comprarlo);
- storia del caffè (incluso il caffè napoletano).
Alla prossima e buona tazza!
Molto interessante, al di là dell’articolo in se il bello del Duca è che ti spinge a essere curioso nelle cose che si danno per scontate, e si impara sempre qualcosa.
Tipo alle macchinette in ufficio d’ora in avanti solo cioccolata.
PS
Tex Willer beve il caffè forte e nero e amaro, e lui è un vero uomo!
Pezzo molto interessante.
All’epoca rimasi anche io colpito dal servizio di Report e voglio aggiungere un peculiare aneddoto:
Pochi giorni prima (dovrei controllare, ma parliamo di meno di una settimana) del servizio in questione, mandai una email al servizio clienti Lavazza.
Chiedevo la motivazione del cambiamento del packaging, che non riportava più le percentuali di miscela.
Ad onore del vero quindi, tale cambiamento è avvenuto sicuramente prima della messa in onda del servizio, ma è possibile che sia successivo al periodo in cui è stata rilasciata l’intervista (prevedendo la reazione).
Facevo questa domanda al servizio clienti non perché avessi visto il trailer o fossi interessato alla faccenda, ma perché, sebbene oggi mi renda conto che è un’affermazione barbara, avevo notato che tra i preparati per moka commerciali, preferivo di gran lunga quelli ad altissimo contenuto di Robusta (bevevo il “Suerte” 100% robusta e qualche altra miscela 70% robusta 20% arabica).
Tralasciando questo mio gusto barbaro (che permane), la cosa divertente fu che il servizio clienti mi chiese il numero di telefono e mi contatto TEMPESTIVAMENTE per chiedermi che problemi avevo avuto con il prodotto, se avevo notati cambiamenti e se ne ero insoddisfatto. Io mi limitai a chiedere, ingenuo, se fosse cambiata la miscela e su questo venni rassicurato.
Dopo pochi giorni vidi il servizio di Report e mi resi conto del perché ci fu tanta solerzia, evidentemente erano già in fibrillazione.
Solo un piccolissimo appunto, a Napoli l’espresso viene servito con il bicchiere d’acqua che però va bevuto PRIMA, per pulirsi la bocca, non di certo dopo.
Una volta, molti anni fa, proprio il macchinista del Bar Mexico di piazza Dante, mi fece una lavata di testa vedondomi sorseggiare l’acqua dopo aver preso il suo caffè.
Non vedo l’ora di leggere i prossimi articoli.
Qui http://www.lavazza.it/it/a-casa/moka/altre-miscele/suerte.html indicano per il Suerte una tostatura media, corpo contenuto e intensità di gusto contenuta (nei valori visivi coi grani).
Immagino siano riusciti a contenere i problemi di un caffè economico tostandolo meno del solito. Non l’ho mai provato. Sto per provare invece il Paulista, di cui mi lascia profondamente turbato la dicitura che la macinatura è buona sia per Moka che per espresso… ma sono totalmente diverse come macinature! Se è ideale per Moka, scorrerebbe troppo veloce per l’espresso, se invece fosse fine da espresso darebbe sapori troppo forti alla Moka!
A meno che non diano per scontato l’uso di un filtro pressurizzato, tipico delle macchine entry level, e allora anche un macinato non finissimo è utilizzabile… uhm, proverò.
Il problema è che in teoria andrebbe bevuto prima, ma con un buon caffè uno prima mica ne ha bisogno… e allora lo si beve dopo, quando davvero serve. Il fatto che l’abitudine a dare il bicchiere d’acqua sia legata alla diffusione dei caffè cattivi, direi che è abbastanza indicativa. 😀
Comunque bagnare la bocca prima la prepara all’asciugatura che arriverà, per cui è comunque utile per sopportare un caffè cattivo. Un caffè buono pulisce la bocca da solo da sapori precedenti e la lascia pulita a fine bevuta, ben salivante, mantenendo presenti solo gli aromi: l’acqua non serve né prima né dopo.
Talvolta un po’ troppo freschi: dopo un Nicaragua del “Buenos Aires Estate” sto sbavando come un cane e altro che acqua, servirebbe un bicchiere di sabbia per ridurre il bagnato. 😀
Ho ritrovato un link su Godina che mi mancava e ho aggiunto questo pezzo, verso la fine della parte su Napoli:
L’ho messo perché online, negli ultimi due anni, ho visto un sacco di gente lanciarsi sul gombloddo contro il meridione da parte di un malevole servito del Grande Satana Illy.. Certoooo… ^__^”
Ho anche spiegato meglio anche la battuta sul bicchiere d’acqua precisando le implicazioni che ha comunque lo si beva, che sia prima o dopo. Effettivamente non era immediato da capire. Ci tornerò comunque quando parleremo della vera tradizione napoletana del caffè, in un prossimo articolo. Devo capire se metterlo in quello di storia uno più piccolo a parte su Napoli in cui mostrare anche l’uso della favolosa napoletana/cuccumella (secondo me molto superiore alla Moka settentrionale).
Ciao, grazie per questi articoli! Questo sito è davvero una perla nell’oceano. Avrei delle domande:
1) Tempo fa su youtube ho visto un ted talk di Asher Yaron il quale dice che il caffé andrebbe bevuto poco tempo dopo la tostatura. Da un minimo di 12 ore dopo ad un massimo di 7 giorni perché poi comunque si rovina, indipendentemente da come lo si conserva (sotto vuoto, con gas…). Cosa ne pensi?
2) Avevo cercato ed ho visto che alcune persone comprano il caffé verde e lo tostano a casa. Visto che le macchine per la tostatura costano un botto usano delle macchine elettriche per pop-corn. Non tutte, solo alcune che hanno delle caratteristiche minime di Watt e altri valori. Secondo te è una pratica fattibile o è follia?
3) Sempre cercando avevo visto che esiste un aggeggio che si mette sul fornello e da esso sgorga il caffé espresso, scende come se fosse una fontanella. Se non ricordo male era un prodotto italiano che però sarebbe venduto solo all’estero perché in Italia non ha mercato. Ne sai qualcosa?
Per ora penso di aver finito le domande, grazie!
1) Berlo più fresco possibile va benissimo, ma il caffè dopo la tostatura ha un “buon” tempo di vita (non lungo come il tè, ma non è cortissimo). Il grosso problema del caffè è l’irrancidimento dei grassi legato al contatto con l’ossigeno: se riduci al minimo il contatto, riduci i problemi, fino quasi a rendere il problema poco significativo (sotto vuoto oppure atmosfera di azoto sigillata).
Meglio consumarlo fresco, prima che abbia ceduto tutta la CO2 e parte degli aromi, ma non mi preoccuperei comunque troppo: i chicchi di Illy, pur avendo fatto qualche settimana (o mese) di magazzino nella lattina con l’azoto, sono ancora ottimi. Meglio avere l’amico barista che ha la fornitura freschissima, meglio dei supermercati, e magari ne vende un po’… ma non è un dramma comprare al supermercato, ecco.
Se tenti di ridurre al minimo il contatto con l’aria, il caffè può durare un po’ di più.
L’indicazione generica che si può dare è che una confezione di chicchi va consumata entro 1 mese. Una confezione di macinato entro 2-3 settimane. Se levi più ossigeno che puoi serrando bene la busta e chiudendo con una molletta, invece di lasciarlo dentro un barattolo che si riempe d’aria, magari dura come quello in grani… io ho avuto del caffè macinato che un mese lo ha fatto.
Ho avuto però pure un caffè macinato che, pur con tutte le accortezze (il 100% messicano di AltroMercato) dopo 3 settimane era già un po’ stantio e il sapore era mutato un po’. Forse era più vecchio, forse aveva passato più tempo prima di macinatura e del confezionamento, boh… alla fine ho preferito buttarne 60 grammi abbondanti, il sapore non mi convinceva più (ma era comunque molto meglio del Crema e Gusto). :-/
Con quello in grani se stai attento a togliere più aria che puoi e lo serri bene, io ho visto sui miei chicchi una durata di un mese e mezzo (o poco meno), fai 4-5 settimane prima che il poco rimasto iniziasse a dare uno odore leggermente diverso, un odore un poco stantio… ma in infusione (non so in espresso, non ho provato) era ancora buono, seppur un po’ meno elegante, e così non ho dovuto buttare gli ultimi 40-50 grammi.
Mi è successo spesso di avere grani che hanno superato il mese (l’ultima volta con un Haitixxxxx fantastico preso a gennaio, aperto a inizio febbraio e finito 7 giorni fa: un mese e due settimane abbondanti dall’apertura, ma negli ultimi 10 giorni era un po’ meno elegante pure lui): considera che tengo più caffè aperti e non è che posso berne due litri al giorno (di 2 litri bevo il tè, ogni giorno!).
Ho proprio ora un Sidamo d’Etiopia che fa i due mesi dall’apertura e ha iniziato a cambiare odore leggermente solo pochi giorni fa: oggi l’ho fatto in AeroPress ed era buonissimo, domani lo finisco prima che si rovini davvero.
2) Si può fare. Ne parla anche l’autore di The Coffeist Manifesto. Considerando però che i torrefattori online sono molto attenti a vendere prodotti più freschi di tostatura possibili ai clienti, e considerando che loro possono fare tostature ideali e con un ottimo livello di somiglianza tra chicco e chicco… e se consideriamo che spesso il caffè verde costa quanto quello tostato (per esempio è così su Caffelab.it che vende parecchi caffè verdi)…
… non vedo motivi particolari per tostarlo a casa propria. Meglio comprarne poco, quanto si può finire in 4-5 settimane massime dall’acquisto, e lasciare la fatica e la parte complicata ai torrefattori che hanno macchine e conoscenze.
Se uno invece è appassionato proprio… beh, nel caso penso che non si fermerebbe alla macchina per i pop corn, ma prenderebbe una tostatrice bella. Non sono appassionato così tanto, passo! XD
3) Conosco solo la Bacchi e la Kamira. La prima è grossa e costa di più e alla fine fa un espresso normale. La Kamira non l’ho mai provata e mi lascia alcune perplessità guardando i video. Visto che costa 79,90 euro non me la sento di prenderla, ho già la mia Saeco Poemia che mi soddisfa a sufficienza…
http://www.espressokamira.com/index.php
Mi lascia un po’ perplesso, dicevo prima, perché non estrae con una forte pressione il caffè, tant’è che gli basta la macinatura da Moka (molto più grossolana) come avviene con l’estrazione a pressione “blanda” della Moka (in cui il vapore in pressione spinge su l’acqua, un po’ troppo calda, attraverso il caffè). Sembra un incrocio tra un espresso e una Moka… la crema c’è perché non rovina gli olii, per cui immagino che il risultato sia quindi sciropposo a sufficienza…
Mi verrebbe da pensare che il principio sia simile a quello della Moka: il primo vapore spinge l’acqua restante fino al caffè, ma è incredibilmente rapida… strana è anche la crema, che appare sia sul sito ufficiale che in questo video https://www.youtube.com/watch?v=GFGZegEy8b8 simile a una schiuma, con grosse bolle d’aria invece di una tessitura fine, come la crema dei portafiltri pressurizzati di bassa qualità per l’espresso delle macchine entry level, anzi, una schiuma così gonfia il mio portafiltro pressurizzato non l’ha mai fatta…
Guarda pure queste foto, sembra la schiuma facendo il bagno… http://mammasprint360.blogspot.it/2015/06/kamira-una-macchina-per-un-caffe.html
Qui invece mi pare assieme schiumoso e con un grosso bottone bianco, come se fosse sovraestratto… come avveniva facendo uscire troppa acqua nella mia Saeco in una tazzina, invece dei 25-30 ml massimi: https://www.youtube.com/watch?v=XsvcixT5iB8
Sono molto incuriosito. A tema macchine da espresso che usano il calore diretto invece dell’elettricità conoscevo solo la mitica Bacchi citata prima, che però costa 200 euro in più della Kamira: http://www.caffelab.it/macchine-da-caffe/15-caffettiera-espresso-domestica-bacchi.html
Se trovi qualche info maggiore, fammi sapere. O ancora meglio: se la compri. dimmi come viene e mandami un paio di foto! ^_^
Caro duca
Trmpo fa ricordo di aver letto un’articolo su “altro consumo” in cui metteva a confronto differenti miscele da moka
Mi aveva colpito il fatto che tra i migliori caffe da supermercato stavincesse il “Don Jerez” 100%arabica dell’eurospin, poi ho scoperto essere una produzione “fantasma” della Pellini
Quale è il parere ducale?
Gli articoli sul vino erano interessanti (e nemmeno ne bevo). Quelli sul tè, pure (ne bevo poco).
Questo sul caffè è notevole – ne bevo solo un po’ col latte, a colazione: del caffè da solo mi piace il profumo, ma il sapore no, e forse ora capisco il perché XD
Un giorno parlerai anche di cacao e cioccolata? Sono due cose che adoro 🙂
Riguardo alla reazione sull’inchiesta di Report, credo che il problema sia il sentimento religioso sviluppato verso il caffè in Italia, ma non sostenuto dalla giusta voglia di approfondire, dando per scontato che ciò che si è acquisito sia già perfetto, e si possa mantenere senza sforzo, studio ed esercizio attento: se l’inchiesta fosse stata sulla qualità del calcio o della moda, mi sa che le reazioninegative alle critiche sarebbero state identiche…
Di Altro Consumo avevo beccato una volta uno screen con la tabella dei loro voti sui caffè, come sempre basati su criteri ignoti e di regola ininfluenti rispetto ai parametri di giudizio di settore (come ai tempi fecero classificando la qualità dei vini in base ai solfiti, lol).
Era una roba assurda. Ecco ho ritrovato il link del test, risalente al 2011:
http://www.ilfattoalimentare.it/altroconsumo-boccia-lavazza-qualita-oro-e-illy-nel-test-sul-caffe-le-perplessita-della-prova-sensoriale.html
Poi vai a rileggere di cosa sa quella miscela fetente di chicchi guasti/acerbi, e l’idea che viene è che il “panel” di Altro Consumo per le valutazioni fosse formato da barboni raccolti sotto i ponti con il sapore di vomito ancora in bocca da coprire col caffè e i buongustati che vogliono la melma bruciata in tazzina perché così i Veri Uomini bevono il caffè. ^__^
Panel che hanno evitato di spiegare, probabilmente perché la mia ipotesi è corretta:
Cavolo, 5 anni fa il Crema e Gusto Lavazza stava a 9,70 (oggi 11 euro) e Illy a 21,10 euro (oggi 26-28) al kg… :-/
I prezzi del caffè oscillano molto nel tempo, ma è un bell’aumento, considerando anche il periodo di inflazione 0 o di deflazione…
Non penso. Non articoli di questo tipo, intendo: per il caffè manca ancora da usare tutta la parte di degustazioni fatte, che sfrutterò come consigli d’acquisto quando parlerò di come fare il caffè a casa in diversi modi… con la cioccolata non saprei nemmeno dove sbattere la testa per trovare prodotti di qualità, provarli ecc. col caffè ho visto che era facile andare sui monoorigine e sui prodotti di pregio, come col tè o col vino, ma con cacao/cioccolato sto fermo a quanto studiato al corso AIS per Sommelier (poche cose) e in un paio di libri (principale, per la parte storica: Tè, caffè, cioccolata – I mondi della caffeina tra storie e culture di Weinberg e Bealer).
Potrei dire qualcosa, ma solo connesso in generale al discorso caffeina, quello sì. Ci penso. Piace anche a me, ma non ho mai approfondito (mentre col caffè anche prima della full immersion di questi mesi mi ero già interessato e ne sapevo qualcosa).
Mi piacerebbe tornare anche a parlare di tè: alla fine dopo mesi e mesi ancora l’articolo sull’infusione alla cinese, quella alla russa, e i loro pregi/difetti rispetto a quella occidentale ancora non l’ho fatto! E zero informazioni su cosa differenzi un tè verde in stile cinese da uno giapponese, o un bianco da un verde ecc. a livello di lavorazione. :-/
Magari potrei approfittare del caffè per parlare di infusione a freddo sia per tè che per caffè in un solo post breve…
EXTRA: CATTIVI CAFFÈ A TRIESTE (linkato nel post)
Qualche caffè pessimo degustato da Godina a Trieste, come dire che non basta il 100% di Arabica a cavarsela sempre se poi il caffè irrancidisce o se arriva molta umidità e il macinacaffè non viene ricalibrato per fare una macinatura leggermente più grossa (se no la macinatura da tempo asciutto fa venire il caffè sovraestratto):
Certo che in 5 minuti usando google tutti i Leoni anti-Godina visti online potevano verificare che non c’era nessun pompino pro-Trieste e odio contro Napoli, perché è vero che a Trieste ha indicato anche caffè eccelsi bevuti (e il miglior NON è Illy, ma è un prodotto custom realizzato per il bar da un torrefattore terzo che li tosta il caffè verde scelto da loro) e che i buoni battono i cattivi 5 a 4 ma di martellate nelle palle ne ha date diverse e facendo anche nomi di caffè MOLTO famosi. ^__^
Qui il migliore di tutti, che come detto NON è Illy:
Giusto per precisione.
Guardo avanti agli articoli per i metodi alternativi per il caffè – il Coffeist Manifesto ne elencava di gustosi.
Davvero gli italiani sono molto indietro nell’espresso (o nel caffè in generale a voler essere crudeli…) se si pensa che il World Barista Championship dal 2000 non è mai stato vinto da un italiano, ma da soli inglesi o scandinavi – con la gloriosa eccezione del giapponese Hidenori Izaki nel 2014, a Rimini! 😀
Sono un po’ scettico sulle piantagioni con gli alberi; sono indubbiamente un passo in avanti, ma come osservava Steven Ward, se piantano sempre gli stessi alberi in serie non è esattamente una vera biodiversità…
L’ideale infatti è realizzare l’ombra tramute alberi alti, di tipi diversi e collocati in modo meno uniforme. Qui qualche dato sugli effetti della coltivazione con ombra: http://nationalzoo.si.edu/scbi/migratorybirds/coffee/bird_friendly/ecological-benefits-of-shade-grown-coffee.cfm
Gli uccelli migratori sembrano addirittura apprezzare ambienti creati ad hoc per loro, rispetto alle generiche foreste di default:
E le usano come se fosse un buffet all-you-can-eat:
In fondo al post ci sono i criteri di altezza, diversità delle piante ecc. affinché una piantagione sia Bird Friendly e possa ricevere il certificato.
Non saranno ambienti naturali veri, ma gli animali sembrano apprezzarli a sufficienza. ^-^
Sono anni che non bevo più caffè al bar (tranne in casi disperati in cui voglio stare sveglio… anche se purtroppo l’effetto svanisce in meno di un quarto d’ora), proprio perchè il gusto è andato sempre peggiorando.
Ho smesso di prendere persino il cappuccino, che una una volta adoravo (per via della schiuma, che a casa è impossibile da replicare anche con le macchinette più professionali), proprio perchè dopo mi rimaneva un retrogusto amaro.
Mi fà piacere scoprire che non sono diventato pazzo, ma il mio atteggiamento è dettato da dati di fatto (anche se non li conoscevo).
Volevo inoltre sapere se parlerai di caffè alla turca (che non ho mai assaggiato, ma solo perchè non ho mai trovato un bar che lo facesse) e di caffè “alla cowboy” (è da quando leggevo Tex Willer che lo vorrei tentare a casa, ma non sò se rischiare).
Sì, parlerò di entrambi.
Anche perché erano i due metodi più utilizzati in Italia fino alla Seconda Guerra Mondiale: Pellegrino Artusi nel suo manuale consigliava il metodo per decozione con ebollizioni successive (cioè quello alla Turca, in pratica), mentre l’altro metodo è quello per infusione ovvero il caffè nel pentolino filtrando poi l’acqua con un calzino vecchio (o senza filtro, ma stando attenti a non versare i fondi… metodo questo ispirato al modo di fare il tè, molto facile e alla portata di chiunque con poca fatica).
La Moka nata nel 1933 si diffuse solo a partire dalla seconda metà del Novecento. La cuccumella napoletana, nata pare nel 1819, rimase invece più circoscritta alla Campania e al meridione… e tristemente sta venendo sostituita dalla Moka pure lì… 🙁
Con un semplice CaffèPellini e una Fantastica Moka Bialetti, mi basta dell’Acqua e del Fuoco per creare quello che ritengo essere il miglior Caffè del mondo. Non ho letto che qualche riga fino ad ora, ma temo di non essere in linea col pensiero e l’esperienza di chi scrive. Considero generalmente il Caffè del bar come un ripiego. Con una enorme eccezione, che non conferma affatto la regola (non occorre): era l’espresso preparato dal caporal maggiore Gennaro Antignano, di Napoli ovviamente, durante gli undici mesi di servizio militare svolto nel 1986, a 24 anni, a Pordenone. Battaglione Logistico Garibaldi, Compagnia Mantenimento, incarico di semplice furiere, che pochissimo dopo ha subito un cambiamento (l’incarico che ti affidavano a inizio “Naja” NON veniva mai cambiato. A me è successo: sono stato fatto Autiere e, a motivo della mia abilità nel condurre mezzi con ruote i più svariati, il Comandante della Compagnia, Cap. Cusanno mi disse se mi andava di fargli da autista e di usare la AR (roboantemente “Autovettura da Ricognizione”), una Fiat Campagnola a Benzina con 2 litri di cilindrata. Godetti pazzamente per il resto del tempo lì. Sono vecchio come il cucco.
Il Pellini n. 20 per Moka non è male. E ho sentito parlare bene anche di una delle miscele da espresso.
Io nel n. 20 sentivo note di panpepato e agrumi, se ricordo giusto. Buon corpo. Solo leggermente amaro, non ruvido. Note di un po’ di legno, mi pare. Nell’insieme una sufficienza abbondante (6++) nei miei appunti legati al mio gusto, per ricordarmi cosa ricomprare. Rispetto al 4,5 che ho dato al Crema & Gusto Lavazza fatto in espresso (amaro, ruvido e che con lo zucchero sa di rancido), il Pellini n. 20 è un signor caffè.
In Moka mi trovo bene anche col Lavazza Oro, con il bergamasco Caffè Poli (il 100% arabica, non gli altri: questo ha note di frutta candita, ricorda il panettone), col Lavazza Paulista, con Illy, Sant’Eustachio e altri e mi è piaciuto anche il Passalacqua Harem. Harem non è il mio stile di caffè ideale, ma era figo.
Gentile Duca, da poco ho acquistato un’automatica DeLonghi (non sarà il massimo, ne minimamente paragonabile alle macchine da bar, ma non mi piace il caffè della moka). Parliamo quindi di caffè in grani.
Lavazza non la prendo nemmeno in considerazione, Sto cercando di capire le differenze tra i Vergnano Espresso (che è il primo che sto provando, ma non mi entusiasma, e mia moglie che di certo non è unìesperta dice addirittura che a lei fa proprio schifo…de gustibus). Piuttosto l’avarizia delle informazioni mi manda in bestia, perchè vorrei cpire ad esempio la differenza con il Vergnano Cremoso (peraltro meno costoso del Espresso) o il Vergnano Antica Bottega (le tabelline su intensità, dolcezza, etc…fanno sorridere. Il Vergnano Espresso ha quasi il massimo come dolcezza, io bevo il caffè senza zucchero e se quello è un caffè dolce allora io sono Superman).
Mi piacerebbe sapere anche del Pellini la differenza tra il n.82 Vivace (meno caro, siamo sui prezzi del Vergnano Espresso) ed il Pellini n. 9 Cremoso.
In rete non si trova praticamente nulla. Non so se hai avuto modo di provare alcune di queste miscele o se in generale tra le marche “commerciali” (posto che proverò perchè poi i gusti son soggettivi) sia da preferire comunque il Pellini al Vergnano o viceversa. Grazie per le eventuali info.
Alessio
Io per uso domestico mi trovo bene con la Saeco Poemia, che sarà più o meno simile immagino. Ho solo cambiato il braccio con uno migliore, in bronzo, che pesa un accidente e il caffè viene meglio. Il braccio nuovo l’ho tenuto col filtro pressurizzato, mentre l’altro il alluminio l’ho smontato e tramutato in un filtro tradizionale. ^_^
Io ormai lo compro in grani per fare l’infusione calda o il caffè con infusione fredda, e per l’espresso veloce a meno di non voler prendere un caffè nuovo, particolare, su un negozio specializzato, me lo prendo già macinato. Illy, Pellini, Loacker. Non mi è dispiaciuto nemmeno il Kimbo Napoletano, nonostante il 20% di robusta (e poi costa 13 euro al kg, contro i 18 del Lavazza Oro o i 25-30 del caffè Illy). A breve provo il Lavazza Oro, che compravo solo per moka ogni tanto.
Non bevo il Vergnano. Ho provato la loro miscela base da moka anni fa e non era buona (sarà stata a occhio un 40% pulito di Robusta di basso livello, acerbi e/o danneggiati).
Di Pellini non mi dispiacciono i caffè da espresso, e attualmente sto finendo una confezione di n.1 “vellutato”. Il n.82 “vivace” in grani aveva ottenuto una sufficienza risicata in quel sito che linko. Ti piace? Con Pellini per ora mi sono sempre trovato bene. Non conoscendo bene Vergnano, non posso aiutarti, mi spiace…
Se ti piacciono i caffè molto acidi e floreali, molto nordici, come Illy, prova la miscela da espresso Loacker che si compra nei loro negozi… trovi sia i 250 grammi macinati che 1 kg in grani. 🙂
Grazie per l’articolo.
Sono un italiano cresciuto all’estero e quando ho voluto perfezionare la mia conoscenza sul caffè espresso, sono arrivato a conclusioni molto simili alle tue.
Forse per l’approccio religioso, como scritto in un commento piú su da ‘Daniele’, mi sono imbattuto con un vuoto di siti amatoriali in italiano alla ‘home-barista’. Dalle affermazioni terra-terra (‘la moka non si lava mai’) si passa direttamente a siti avanzati, per chi conosce (quasi tutto). Dunque sono ricorso a siti internazionali dove riconoscono senza vergogna, sia pregi che i difetti dei caffè italiani e ti aprono a un mondo di varietà e preparazioni che non ti aspetti.
Se mi permettete dare un paio di consigli, suggerirei acquistare un buon macinacaffè ed evitare la ‘linea casa’ dei grandi produttori.
Evitare le linee “casalinghe” dei produttori è sempre un’ottima idea! E la seconda è ricordarsi che i prezzi del caffè sono quel che sono: e un arabica da 8 euro al kg varrà 8 euro al kg, cioè farà pena, se si considera che 20-30 euro al kg è il prezzo corretto.
Più si scende di prezzo più il rischio sale. Io col Pellini n.1 mi trovo bene e lo compro spesso, al Carrefour a poco meno di 17 euro al kg, ma è un caffè con tutti i suoi limiti evidenti rispetto ai prodotti migliori di Mokaflor o alle miscele di Caffelab, di cui adoro l’ottima “na tazzulella ‘e cafè” (21 euro al kg) che è il loro nuovo espresso di corpo fortissimo e assieme molto aromatico, realizzato per incarnare l’ideale astratto del vero espresso napoletano. È perfino più corposo del 100% Robusta -ma di pregio!- “Dolce Forte”!
Sbaglio o le ripetute promesse “di questo parleremo in un articolo dedicato” non sono mai state mantenute? In caso contrario, non li ho trovati e sarei curioso di leggerli. Grazie!
No, alla fine non me ne ero più occupato. Ma penso di fare quello sulla riscoperto del caffè tradizionale di Napoli, che non è l’espresso.